Haggadà di Barcellona, XIV sec. Raffigurazione dei 4 figli (Fonte Wikimedia commons)
Uno dei passi più famosi del seder di Pesach è quello dei quattro figli. Nella Torà troviamo quattro passaggi in cui ci viene detto di trasmettere ai nostri figli l’esperienza dell’uscita dall’Egitto, come momento essenziale dell’identità ebraica. A seconda di come questi passaggi vengono rappresentati nella Torà, e in relazione alla domanda che potremmo ricevere (o non ricevere) da un figlio, i Maestri hanno identificato quattro categorie: il figlio saggio, quello malvagio, quello semplice, quello che non sa domandare.
Parlando di figli, va specificato che non possiamo considerare queste categorie come un giudizio definitivo, quanto piuttosto il riconoscimento di attitudini che possono essere virtuose o meno, di come incentivare quelle virtuose e di come interagire con quelle che possono avere conseguenze negative. Allo stesso modo ci insegna anche a interagire con chi mostra un certo disinteresse, come il semplice e quello che non sa domandare.
C’è una riflessione, che spesso ricorre tra i commentatori della Haggadà, e riguarda le domande del figlio “saggio” e di quello “malvagio”. Il cosiddetto saggio si rivolge al genitore chiedendo: «Cosa sono le testimonianze, statuti e le leggi che il Signore nostro Dio ha comandato a voi?». Dall’altra parte, il cosiddetto malvagio chiede: «Cos’è questo servizio per voi?». Si può notare che la domanda del saggio è certamente più circostanziata, mostra conoscenza strutturata, identificando testimonianze, leggi e statuti. Ma in fondo i due figli sembrano fare la stessa domanda, e soprattutto entrambi usano la seconda persona plurale: «voi». Può stupire, allora, come i Maestri abbiano identificato da queste domande due caratteri, due attitudini opposte, una di saggezza e una di malvagità.
Si può intanto notare che la domanda del figlio “saggio” non è solamente una domanda dotta, ma rivolgendosi ai genitori che vede compiere il seder di Pesach in tutte le sue regole, pur chiedendo spiegazioni, accetta che tali regole le ha comandate «il Signore nostro Dio». Il «voi» riguarda solo il fatto che i genitori, in quanto adulti, sono parte attiva di questa tradizione. Egli si sente parte del seder, e con una sana curiosità chiede il senso degli usi che vede attuare davanti a sé. Questa curiosità va soddisfatta e per questo gli si risponde citando una halakhà, una regola di Pesach.
Il figlio “malvagio”, ossia quello che mostra un’attitudine non buona, con la sua domanda secca e un po’ impertinente, si tira fuori dal tutto. Il commento dei Maestri infatti è: «dal momento che si è tirato fuori dal kelal (lett. “generale”, in un certo senso dalla comunità) ha negato il principio fondamentale». La sera di Pesach, con le sue tradizioni e con i suoi canti, ci insegna prima di tutto che siamo un kelal, che siamo un gruppo di persone che hanno le stesse regole ma soprattutto un destino comune.
Questo è un fondamento imprescindibile del popolo ebraico. La risposta a questo figlio è che, con questo atteggiamento, se lui si fosse trovato in quel momento in Egitto non sarebbe stato redento, e sarebbe rimasto schiavo degli egiziani. Non tutto può essere oggetto di discussione.
Va qui specificato che la tradizione ebraica non accetta in modo acritico tutti gli eventi a cui il popolo ebraico è stato sottoposto, anche quelli più difficili e cruenti. Per esempio, proprio in relazione all’uscita dall’Egitto, la morte dei primogeniti non è un evento che viene festeggiato. Al contrario, i primogeniti fanno un digiuno il giorno prima di Pesach, così come l’Hallel, i salmi di lode che si cantano nei giorni festivi, vengono ridotti nella seconda parte di Pesach in riferimento alla morte dei soldati egiziani nel Mar Rosso. Prendiamo sulle nostre spalle anche il peso di queste tragedie.
La Haggadà viene a dirci che, quando affrontiamo temi importanti e fondamentali per la nostra identità, dobbiamo farlo prima di tutto in modo articolato. Non esiste un ambito, sia esso storico, religioso, o culturale, che possa essere trattato con superficialità e con giudizi perentori. Questo è in totale opposizione a quanto la cultura ebraica abbia elaborato nella sua storia millenaria. Inoltre, c’è una cosa che un ebreo non deve mai fare: mettersi fuori dal kelal. Quando una persona viene convertita all’ebraismo gli si dice che d’ora in poi tutto quello che farà avrà delle ripercussioni sull’intero popolo ebraico. Questo non significa accettare acriticamente ogni cosa che accada, al contrario, è dovere di ogni ebreo di far sentire la propria opinione, anche (e soprattutto) se in dissenso dalla maggioranza, ed è un dovere della maggioranza accogliere e rispettare l’opinione dissenziente. Ma questo, quando si tratta di argomenti che hanno o che possono avere ripercussioni su tutto il popolo ebraico, deve avvenire senza disinteressarsi del kelal perché esiste un principio fondamentale nell’ebraismo, secondo il quale siamo tutti interconnessi.