L’interpretazione magica e mistica dell’alfabeto ebraico nel Rinascimento

Sefer Yetzirà, Mantova 1562 (credit Wikimedia Commons)

In un recente incontro, svoltosi nel quadro di un programma di conferenze sulla magia nel Medioevo e nel Rinascimento presso l’Accademia “La Colombaria” di Firenze, ho avuto modo di parlare della percezione umanistica della lingua ebraica come codice segreto per accedere ai misteri divini. 

L’idea che l’alfabeto ebraico sia tra le prime creazioni di D-o, all’origine stessa della formazione dell’universo, è molto antica. Fin dall’epoca post-biblica gli stessi aspetti grafici delle lettere “aramaiche” furono considerati strumentali al Ma‘asé Bereshit (“Opera della Creazione”). Nel Midrash Alfa beta de-rabbi ‘Aqiva (a sua volta fondato sul Midrash Bereshit rabbà) si legge, ad esempio, che ogni lettera ebraica fu incisa sulla corona di D-o con una penna di fuoco e, quando il Signore decise di avviare il processo creativo, ciascuna di esse si presentò davanti al Santo, chiedendo di avere l’onore di essere la prima con cui dar vita al mondo. Analogamente, dal più tardo Midrash Bereshit rabbati apprendiamo che «[]con ventidue lettere il Santo benedetto creò tutto il suo mondo, come è scritto: “ventidue lettere: le intagliò, le incise, le soppesò e le permutò, le combinò e con esse formò la vita di tutta la creazione e di tutto ciò che da allora in poi sarebbe stato formato”». La citazione interna è derivata quasi letteralmente dall’incipit del Sefer yetzirà o Libro della formazione, una delle più antiche opere ebraiche interamente incentrate sulle connessioni tra alfabeto e creazione divina. Il breve trattato, sull’ambiente ed epoca della cui composizione ancora si discute (tra il III e il VII secolo, tra Terra d’Israele e Babilonia), è una speculazione sull’Opera della Creazione, di natura essenzialmente linguistica: la stessa pronuncia dei segni grafici della lingua santa troverebbe riscontro nella varietà di livelli ontologici del macrocosmo e del microcosmo divini.

La centralità della lingua e dell’alfabeto divenne ben presto cruciale nella definizione dell’identità ebraica all’esterno del mondo giudaico. Ad esempio, il vescovo Agobardo di Lione (ca. 779-840), nell’opera apologetica De Judaicis superstitionibus et erroribus, tra gli aspetti a suo avviso più distintivi dell’ebraismo sottolinea la fede nell’esistenza ab aeterno delle lettere e nel loro ruolo eternamente rinnovato di strumenti della creazione. 

Per tutto il Medioevo furono largamente diffuse nei più vari centri della diaspora elaborazioni grafiche dell’alfabeto: tra esse spiccano i Sifré shimmush Tehillim (Libri dell’uso [magico] dei Salmi), che rivelano la complessa integrazione di credenze popolari con speculazioni concettuali sull’uso magico-pratico delle lettere. L’associazione dell’interpretazione magico-simbolica dell’alfabeto con il rinnovato interesse per la lingua originale della Scrittura divenne uno dei nuclei fondanti della ricerca umanistica. 

A partire dal XV secolo gli intellettuali, soprattutto in Italia, rivolsero la loro attenzione alle analogie tra cultura classica e sistemi speculativi e religiosi di origine orientale. In tale ottica la valenza creazionale delle lettere ebraiche poteva essere comparata con le affermazioni del Cratilo di Platone e con le più occulte dottrine dei sapienti pseudo-ermetici. Seguendo quest’interpretazione, inserire un’iscrizione ebraica in un dipinto o su una scultura poteva trasformare un oggetto destinato alla contemplazione religiosa in una realtà modellata a immagine divina. Il culto cristiano delle icone acquisiva così una dimensione di più elevata spiritualità e, grazie a tale espediente, si poteva risolvere la questione ampiamente discussa tra gli intellettuali dell’epoca della valutazione poco lusinghiera dell’arte nel pensiero platonico. È probabilmente questa combinazione di intenti che indusse la committenza e l’esecutore materiale del gruppo bronzeo della Predicazione di San Giovanni Battista, Giovan Francesco Rustici (1475-1554), a decorare con eleganti caratteri ebraici i tre piedistalli delle statue collocate nel 1511 all’esterno della porta settentrionale del Battistero di Firenze e a nascondere nelle pieghe del mantello del Santo protettore della città il suo nome scritto in lettere ebraiche vocalizzate. La lingua divina della creazione avrebbe vivificato l’opera umana, trasformando un manufatto in una specie di golem, secondo un rituale di animazione delle statue attestato anche nei trattati ermetici cari agli umanisti fiorentini.

Giovanfrancesco Rustici, La predicazione di San Giovanni Battista, Firenze, Museo
dell’Opera del Duomo (1506-1511).

Dall’interesse per la lingua della Bibbia con intenti esclusivamente filologici, gli umanisti si spinsero rapidamente allo studio delle funzioni magico-talismaniche dell’alfabeto ebraico. In tale prospettiva lo studio della lingua santa non serviva solo ad una migliore conoscenza del testo sacro, ma assicurava soprattutto la continuità di rapporti tra creazione terrena e D-o. In altri termini, la consapevolezza della struttura fonetica e morfologica dell’ebraico permetteva la comprensione dei fondamenti stessi dell’essere e addirittura la percezione delle modalità più intime dell’agire divino, secondo criteri ermeneutici propri delle dottrine cabbalistiche. Non è un caso che il Sefer yetzirà sia stata tra le prime opere mistiche ebraiche ad essere tradotte in latino e in volgare, già nell’ambiente fiorentino laurenziano degli anni ’80 del Quattrocento. 

In tale ottica si dovrà comprendere, ad esempio, la composizione del Libellus de litteris Hebraicis (ca. 1517) dell’ebraista cristiano Egidio Antonini da Viterbo (1469-1532), così come la pubblicazione a stampa di numerosi alfabeti ebraici nel corso del Cinquecento, talora arricchiti da complessi commenti sull’uso delle lettere per finalità creative, come nel caso esemplare dell’Alphabetum linguae sanctae: mystico intellectu refertum (Parigi, Gilles de Gourmont, 1532) di Jean Chéradame (attivo nella prima metà del XVI secolo).

Non sorprende dunque che a Venezia l’editore cristiano Daniel Bomberg (ca. 1483 – ca. 1549) decidesse, tra le sue prime imprese nella città lagunare, di pubblicare una grammatica ebraica nella quale gli aspetti morfologici e sintattici fossero associati a quelli mistico-simbolici. Nella sua prefazione latina all’opera Miqné Avram (La proprietà o Il lascito di Abram), uscita nel 1523, Bomberg scrive: 

Mi sono interrogato spesso sui motivi che rendono così difficile avvicinarsi alla Scrittura ebraica […] per questo […] ho deciso di dedicarmi alla stampa di questo volume […] che sarà utile, per non dire necessario, a chiunque desideri conseguire la conoscenza perfetta delle sante lettere […]. Ci sono misteri divini (come risulta chiaramente dalla lettura dell’Antico Testamento) nelle parole e nelle stesse lettere del testo sacro, misteri che non si possono comprendere sulla base delle lettere latine e greche.

Giovanfrancesco Rustici, La predicazione di San Giovanni Battista. Particolare di un piedistallo con iscrizione ebraica.

L’opera di Avraham De Balmes (ca. 1460 – ca. 1523), basata sulla tradizione grammaticale arabo-ebraica medievale e impostata secondo criteri speculativi di ascendenza aristotelico-scolastica, dà particolare rilievo alla sintassi: i potenziali acquirenti potevano essere attratti dal rapporto istituito dall’autore tra harkavà (lett.: “composizione” ma anche “sintassi”) e (Ma‘asé) Merkavà, “(Opera del) Carro [divino]”, una delle tradizioni segrete più antiche all’interno del giudaismo, già nei secoli precedenti associata da molti intellettuali ebrei (tra i più noti, Avraham Abulafia, 1240 – ca. 1291) alla pratica mistica della combinazione di lettere ebraiche a scopo creazionale. In tale ottica si dovrà intendere la menzione, nella grammatica di De Balmes, non solo di alfabeti mistici analoghi a quelli descritti nei Sifré shimmush Tehillim, ma anche il riferimento esplicito alle operazioni cabbalistiche di «chibbur wetziruf / connexio et combinatio». 

Il Miqné Avram fu pubblicato poco dopo la morte dell’autore. Bomberg ne stampò due edizioni diverse, una in ebraico e l’altra in ebraico e latino, la prima evidentemente rivolta a un pubblico ebraico e la seconda ai non ebrei. La grammatica, in otto capitoli, fu tradotta in latino quasi interamente dallo stesso De Balmes, ma l’ultima parte è opera di un suo lontano parente, Qalonymos ben David Qalonymos (ca. 1470 –  ca. 1530). Le sue connotazioni mistiche la resero poco gradita agli ebrei, mentre contribuirono a diffonderla tra i cristiani che, come affermano vari responsa di insigni rabbini dell’epoca, ricercavano con assiduità insegnanti ebrei disposti a metterli a parte dei “misteri” della lingua ebraica. Fondandosi sull’halakhà, i dotti maestri veneziani presero posizioni assai rigorose, tentando di impedire ai loro correligionari di rivelare tradizioni che i non ebrei avrebbero potuto utilizzare per scopi proselitistici. 

L’interesse per la dimensione magico-mistica della grammatica ebraica rimase vivo nel corso del Cinquecento e nel secolo successivo. La grammatica di De Balmes aprì la strada ad altri testi in cui le lettere dell’alfabeto ebraico divennero oggetto di acuta fascinazione, come è il caso dell’opera De occulta philosophia di Heinrich Cornelius Agrippa (1486-1535), che dedica ampio spazio alle variazioni grafiche dell’alfabeto ebraico, da utilizzare per scopi magici. Le dimensioni misteriche dell’alfabeto ebraico, già attestate nell’opera di Agobardo di Lione, non cessarono di suscitare il vivo interesse di intellettuali e artisti non ebrei fino alle soglie dell’età dei Lumi. 

Abbonati a Toscana ebraica

LEGGI TUTTO IL GIORNALE IN DIGITALE A SOLI 30€ L' ANNO