A ritroso: Gershom Scholem e il sionismo

Felix Bonfils, Kotel. 1870 ca (credit Wikimedia Commons)

Chi persegue l’attualità si espone, inevitabilmente, al rischio dell’anacronismo. Anziché schivarlo si può coglierne la sfida e partire, per cercare di capire qualcosa del confuso presente, prendendo le mosse da un giorno del passato, collocato nel 1961, e tornando indietro, fino al lontano 1926, per provare a ricostruire un passaggio decisivo nell’esperienza intellettuale e umana di un grande esponente della giudaistica ma anche di un convinto sionista quale Gershom Scholem (Berlino 1897-Gerusalemme 1982). 

Lo scalpore che la cattura, in Argentina, dell’ufficiale nazista Adolf Eichmann da parte di un commando israeliano causò in tutto il mondo fu superato, se possibile, dal risalto mediatico del processo, che si svolse nel corso del 1961, seguito dalla condanna a morte per impiccagione eseguita nel maggio del 1962. Tra quanti avevano seguito il processo, c’era, come è noto, la filosofa ebrea di origine tedesca Hannah Arendt, che era stata incaricata dalla rivista The New Yorker di scrivere un resoconto a puntate sul dibattito processuale, che apparve nel 1963 e subito dopo in volume, con il titolo Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil (apparso in italiano come La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, 1964). Questa pubblicazione suscitò la reazione di molti ebrei, ma in particolare quella di Gershom Scholem, irritato dal libro e soprattutto dal tono che a lui pareva cinico, dai giudizi sprezzanti che conteneva, a proposito dei “Consigli ebraici” o “Judenräte” che, a detta di Arendt, avevano finito per facilitare il compito degli sterminatori nazisti e, naturalmente, anche dall’ambiguo concetto di “banalità del male”, che rischiava di trivializzare la Shoà, mettendo in evidenza il suo carattere burocratico di mera amministrazione della violenza, così che Arendt, per solito assai lucida, aveva finito, pur cogliendo un aspetto decisivo delle società totalitarie, che si nutrono di grigiore e di delega della responsabilità in un osceno scaricabarile, per restare vittima dell’abile pantomima messa in scena dalla difesa di Eichmann per sminuire la portata del suo ruolo di segretario verbalizzante della conferenza di Wannsee e in seguito di uomo chiave per la logistica ferroviaria che sola permise, nel bel mezzo di una guerra mondiale, di perpetrare lo sterminio di milioni di ebrei con oliata e impeccabile efficienza.

I due, che si conoscevano da prima della guerra, dopo uno scambio di lettere di fuoco, ruppero ogni rapporto, non prima di aver deciso di rendere pubblica la loro corrispondenza. Non tornarono più a rivolgersi la parola, fino alla morte di Arendt, avvenuta nel 1976. 

Non era però la prima volta che avevano bisticciato: vi era stata, infatti, una lite epistolare nel 1945, ripetuta poi di persona a New York, con scenate e grida, nel 1949. La causa era stata un articolo della Arendt, datato 1944, ma apparso l’anno seguente sulla rivista Menorah Journal, intitolato “Zionism Reconsidered”, in cui la Arendt, tra le altre cose, osservava che di fatto, considerata la risoluzione del congresso dell’organizzazione sionista americana, tenutosi ad Atlantic City nell’ottobre del 1944, in cui si chiedeva una comunità organizzata (Commonwealth) ebraica, libera e democratica, in tutto il territorio della Palestina (indivisa e inalterata, undivided and undiminished), la piattaforma revisionista di Vladimir (Zeev) Jabotinski aveva già vinto, chiudendo una volta per tutte ogni possibile accordo con gli arabi e, di conseguenza, rendendo impossibile sia la soluzione della partizione, sia quella, da lei preferita, di natura binazionale, perché, come Arendt scrive in maniera alquanto acuta, l’ipotesi binazionale non è una soluzione, ma ne presuppone una: il che si potrebbe poi estendere a qualunque formula di ingegneria statuale o costituzionale che si potesse immaginare. Infatti, tra due entità in guerra non si dà alcuna federazione, che implica fiducia, ma nemmeno partizione, se non imposta dall’alto e, pur sempre, accettata, non importa quanto a denti stretti, da entrambe le parti. La conseguenza che Arendt vede da subito, prima ancora che il rifiuto arabo renda la partizione impraticabile, è la fatale necessità per il futuro Stato degli ebrei di appoggiarsi non a ciò che ha in comune con gli arabi, ossia l’insorgenza nazionale, ma proprio alla negazione della nazionalità, ossia l’imperialismo. Proprio su questo Scholem risponde, prima per iscritto (nel luglio del 1945) e poi a voce, alta, nel 1949, che se ci si deve appoggiare a una potenza straniera, meglio allora gli Stati Uniti che l’Unione Sovietica. Qui si delinea con chiarezza una modalità di risposta, da parte di Scholem, che si ritrova anche nel secondo e ultimo dibattito: Scholem definisce se stesso un bieco conservatore, ma solo perché Arendt gli pareva pendere troppo a sinistra. Ciò che le rimproverava davvero era che sprecasse la sua intelligenza in modo astratto, senza condividere la realtà dello Yishuv. Ma anche, seppure in modo più implicito, che osasse dire ad alta voce quello che molti pensavano, ma preferivano, per carità di patria, sottacere. Non per niente, alla fine del loro ultimo diverbio, uno dei motivi di divergenza si lascia asciugare nella formula seguente: per Scholem l’ebraismo è una scelta (appassionata, e infatti rimprovera la sua interlocutrice di mancanza d’amore, seppure per Israele); per Arendt è un fatto incancellabile, ma niente di più. 

Infatti, se continuiamo ad andare a ritroso, troviamo che Scholem si era espresso in termini non del tutto dissimili sulla rivista del gruppuscolo “Berit shalom”, una sorta di avanguardia intellettuale che, alla fine degli anni Venti, aveva posto con forza la questione della necessità di trovare un accordo con gli arabi senza passare per gli inglesi. In quell’articolo in ebraico, intitolato “La meta finale”, Scholem aveva chiarito che nessuna ipocrisia o tatticismo poteva nascondere il fatto che, se non ci si diceva apertamente quale fosse l’obiettivo del movimento sionista, se il focolare ebraico, una rinascita culturale e, perché no, anche religiosa, l’ebraismo non sarebbe stato salvato dalla fondazione dello Stato ma anzi sarebbe stato messo ancor più in pericolo per la prospettiva esclusivamente mondana in cui rischiava di imprigionarsi. Il tono dominante di quell’articolo è la disillusione: a parere di Scholem non si poteva far altro che sciogliere il “Berit shalom”, che in effetti si dissolse, perché aveva vinto la politica o, in altri termini, il combinato disposto, e per Scholem fatale, di diplomazia e rapporti di forza, dal quale si aspettava solo sciagure. In anni recenti, a opera di Marina Cavarocchi Arbib (su Micromega) e di Friedrich Niewöhner (sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung) abbiamo potuto leggere quel che Scholem scriveva nei suoi appunti per un libro che non vide mai la luce, che doveva intitolarsi “Esoterica metafisica. Sull’ebraismo e gli aspetti esoterici del sionismo” in cui si trovano frasi che fanno pensare: il sionismo ha vinto troppo presto, e perciò abbiamo fallito. Lo sforzo di restaurare la continuità con le radici religiose dell’ebraismo che l’Europa metteva in pericolo il tentativo di recuperare la religio, ossia il legame con il sacro e la sostanza metafisica dell’essere ebrei è stato pervertito da un ingannevole sciovinismo e il progetto è naufragato in mera mondanità, sotto le spoglie – sono parole sue – di una caricatura messianica. Scholem elenca, nel frammento dal quale stiamo citando, tre ambiti in cui il sionismo ha fallito: la lingua, le donne e nel rinnegamento della dimensione religiosa che si è trasformata nella sua caricatura, il sociale. 

Di quest’ultima dimensione abbiamo detto, la questione della lingua, ossia dell’ebraico parlato nella vita quotidiana, de-sacralizzato o meglio secolarizzato ma senza aver saputo togliere il pungiglione messianico, Scholem aveva già scritto nella “Confessione sulla nostra lingua” inviata a Franz Rosenzweig in occasione del suo quarantesimo compleanno, quando era già gravemente ammalato. Scholem, che aveva litigato anche con Rosenzweig nel 1923, perché quest’ultimo rimproverava ai sionisti di cercare lo Stato proprio quando gli Stati erano in crisi e, come nella Prima guerra mondiale, non erano riusciti a salvare se stessi, figurarsi se uno Stato poteva salvare gli ebrei. Scholem, che all’epoca si era molto arrabbiato per l’antisionismo pregiudiziale, a suo avviso, del filosofo, si era accorto gradualmente di quanto Rosenzweig avesse visto giusto; gli scrisse quasi per riconciliarsi, o meglio per fargli sapere che capiva meglio, solo ora, le sue posizioni, osservando che il Paese (ossia la Palestina mandataria) era un vulcano, che i sionisti, come apprendisti stregoni, avevano evocato (nella lingua ebraica) forze potenti, ma non sapevano come controllarle, giocavano con il fuoco messianico, ma chi si sarebbe bruciato sarebbero stati i loro figli. Quanto alle donne, Scholem scrive che «hanno perso splendore, trasformandosi da amazzoni in megere»: non per niente Arendt, commentando la furibonda reazione di Scholem alle sue parole aveva notato: «naturalmente lei è masculini generis [di genere maschile] e perciò (forse) più vulnerabile», non riuscendo nemmeno a strappargli un epistolare sorriso.     

Perché, se Scholem aveva anticipato le ragioni di Arendt e aveva constatato in prima persona la lungimiranza di Rosenzweig, non cambiò idea? Egli rimase sionista fino alla fine, limitandosi a meditare quella che considerava l’obiezione più potente all’intero progetto sionista: era una battuta sprezzante del filosofo neokantiano Hermann Cohen – gliela aveva riferita proprio Rosenzweig – secondo il quale «Die Kerls wollen Glücklich sein» (quei tipi vogliono essere felici). Se ci chiediamo perché Scholem non trasse le conseguenze della propria persuasione che il sionismo avesse fallito, proprio perché aveva avuto successo, forse la risposta più chiara e più raggelante viene da una lettera che Scholem scrisse a Walter Benjamin, che trascorreva a Ibiza l’estate del 1933, non potendo più tornare in Germania dopo l’ascesa al potere dei nazisti. Benjamin meditava di trasferirsi in Palestina, e Scholem, pur non scoraggiandolo, gli rispose: se lo farà, il suo rapporto con l’ebraismo sarà messo alla prova e da quella prova suprema dipenderà il successo di un simile trasloco. Quanto a lui (Scholem), anziché parlargli con entusiasmo o almeno con moderato ottimismo della sua vita di sionista a Gerusalemme, scrive: «La mia vita qui è possibile soltanto, e credo di avertelo scritto più di una volta, perché io mi sento legato a questa causa fino alla rovina e alla disperazione, altrimenti il carattere discutibile di un rinnovamento che si manifesta soprattutto come decadenza linguistica e hybris mi avrebbe fatto a pezzi da tempo».

Si sente domandare spesso perché i sionisti generali (non certo i revisionisti, ma per ragioni opposte) ci impiegarono tanto tempo a rendersi conto che occorreva in qualche modo dialogare con gli arabi, o almeno prendere atto delle loro crescenti rivendicazioni nazionali, spesso mimetiche, ossia generate dialetticamente dall’esperienza sionista: qui ho tentato di dimostrare che, più che la tipica sordità coloniale verso la parola del colonizzato, quel che è mancato, e forse non poteva non mancare, fu addirittura la capacità di ascoltarsi tra ebrei, perché, del tutto paradossalmente, ognuno vedeva fin troppo bene le ragioni, emotive non meno che razionali, dell’altro, ma l’ideologia, coi suoi dubbi conforti, ha avuto la meglio. Viste da lontano le vicende del Medio Oriente ci fanno pensare a volte che la regione soffra per eccesso di religione ma, a dar retta al giovane Scholem, profeta inascoltato, è vero il contrario. 

Riferimenti bibliografici

H. Arendt, “Zionism Reconsidered”, Menorah Journal 23,2 (1944), pp. 162-196. 

H. Arendt, Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, Faber & Faber, London 1963 (seconda edizione, riveduta, 1964; su quest’ultima è basata la traduzione italiana: La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964). 

H. Arendt – G. Scholem, Due lettere sulla banalità del male, Nottetempo, Roma 2007.

H. Arendt – G. Scholem, Der Briefwechsel, ed. M. L. Knott – D. Heredia, Jüdischer Verlag im Suhrkamp Verlag, Berlin 2010. 

W. Benjamin – G. Scholem, Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940, a cura di G. Scholem. Edizione italiana a cura di S. Campanini, Adelphi, Milano 2020. 

M. Brocke, “Franz Rosenzweig und Gerhard Gershom Scholem”, in W. Grab – H.-J. Schoeps (edd.), Juden in der Weimarer Republik, Burg Verlag, Stuttgart – Bonn 1986, pp. 127-152. 

S. Campanini, “שאלו שלום ירושלם Gershom Scholem from Zion to Jerusalem”, in A. Mambelli – V. Marchetto (ed.), Naming the Sacred. Religious Toponymy in History, Theology and Politics, V&R Unipress, Göttingen 2019, pp. 105-118.  

F. Niewöhner, “Im Brennpunkt der Historie. Selbstkritik des Zionismus: Gershom Scholems esoterische Aufzeichnungen der Jahre 1930/31”, Frankfurter Allgemeine Zeitung 251 (29.10.1997), p. 6.  

G. Scholem, “Le delusioni di un sionista”, a cura di M. Cavarocchi Arbib, Micromega 3 (1997), pp. 191-194. 

Una prima versione di questo scritto è stata presentata nel corso di una tavola rotonda intitolata “Le strade verso Gaza tra drammi e conflitti”, organizzata, il 28 novembre 2023, dal Dipartimento di Beni Culturali dell’Università di Bologna, sede di Ravenna.

L’autore è professore di Lingua e Letteratura ebraica presso il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Alma mater studiorum – Università di Bologna.

Abbonati a Toscana ebraica

LEGGI TUTTO IL GIORNALE IN DIGITALE A SOLI 30€ L' ANNO