Le conseguenze economiche delle Leggi razziali

Pubblicata una prima volta con il titolo Tra indifferenza e oblio. Le conseguenze delle leggi razziali 1938-1970 nel 2004 dall’editore Le Monnier di Firenze e tradotta in inglese nel 2019, con aggiornamenti al 2018, per i tipi dell’editore Yad Vashem di Gerusalemme con il titolo Beyond the Things Themselves. Economic Aspects of the Italian Race Laws (1938-2018), esce ora nuovamente in italiano in edizione ampliata e aggiornata questa ricerca di Ilaria Pavan, docente di Storia contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa.
Dal settembre 1938 al settembre 1943 furono emanati in Italia circa 200 decreti da parte di diversi organi dello Stato che limitarono drasticamente i diritti degli ebrei. Dopo l’estate 1943 il governo collaborazionista fascista varò nuove disposizioni contro gli ebrei anche in materia economica e infatti le persecuzioni antiebraiche ebbero gravissime conseguenze anche da questo punto di vista. Le Leggi razziali prevedevano l’esproprio di case, terreni, fabbriche e altri organismi di produzione. La persecuzione degli ebrei durò complessivamente sette anni, dal 1938 fino al 1945. L’inizio fu dato dal Decreto regio per la difesa della razza italiana del 17 novembre 1938 che stabiliva le misure discriminatorie verso la popolazione ebraica, all’epoca consistente in circa 58.000 persone che rappresentavano approssimativamente l’1% della popolazione italiana. Il decreto proibiva fra l’altro i matrimoni misti ed escludeva gli ebrei da impieghi statali, parastatali e di interesse pubblico. Conteneva inoltre norme concernenti le scuole di ogni ordine e grado [le norme dei «Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista» sono contenute nel Decreto regio del 5 settembre 1938. NdR]: l’articolo 1 del decreto recitava: «All’ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebraica». E l’articolo 2: «Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica». Inoltre il regime fascista sottrasse agli ebrei i beni materiali posseduti. Vari provvedimenti si susseguirono e ancora, quasi alla fine della guerra, il 28 febbraio 1945, fu pubblicato l’ultimo dei principali provvedimenti legislativi antiebraici sottoscritti dal Duce, ovvero il decreto legislativo che promulgava il Regolamento amministrativo dell’Ispettorato generale per la razza.
Il volume di Pavan si basa su una ricerca originale compiuta presso diversi archivi e sulla lettura della documentazione a stampa disponibile, compresi rapporti di commissioni governative, fra le quali in particolare, per l’Italia, quello fondamentale della Commissione Anselmi, istituita nel 1998, presentato ufficialmente al governo (presidente Amato) nel maggio 2001. Nonostante il poco tempo disponibile, l’esiguità del gruppo di lavoro preposto (solo 13 persone fra le quali 3 soli storici) e il vizio iniziale costituito dalla genericità dell’obiettivo assegnatole che non faceva riferimento alcuno alla fase storica da prendere in esame e al fascismo o alla possibilità di integrare le restituzioni postbelliche, i risultati raggiunti dalla Commissione furono molto significativi: 600 pagine molto circostanziate dalle quali, come scrive Pavan, «emerge oltre ogni ragionevole dubbio la pervasività della persecuzione economica condotta dal fascismo, delle misure discriminatorie introdotte, dell’operato puntuale e zelante della macchina burocratica del regime che le applicò diligentemente dal 1938 al 1945».

Pavan aggiunge che

nel mandato […] non c’erano tracce […] di un obiettivo di chiarificazione storica, politica, morale che il governo italiano intendeva portare avanti attraverso quel lavoro di ricerca. Né […] emergeva un’assunzione di responsabilità verso le vittime della persecuzione antiebraica o un impegno […] a sanare eventuali torti che fossero emersi come ancora meritevoli di forme di risarcimento o riparazione.

La vicenda non è del resto ancora conclusa. Infatti (come il rapporto della Commissione Anselmi evidenziava puntualmente) gran parte dei beni persi dagli ebrei in conseguenza delle leggi fasciste non è tornata in possesso dei suoi originari proprietari o dei loro legittimi discendenti e ancora ai nostri giorni, quando sono state intraprese azioni legali per riacquisire quanto perduto esse si sono scontrate con la risposta negativa da parte delle istituzioni italiane, fino ai livelli governativi. Fra i casi che Pavan riporta vi sono quelli relativi alla restituzione di pregiati oggetti e opere d’arte finite in raccolte pubbliche italiane nel dopoguerra. Emblematico il caso delle tele di proprietà del collezionista Federico Gentili, morto nel 1940, i cui figli fuggirono all’estero per evitare la deportazione lasciando il patrimonio paterno incustodito. Nel 1941 i beni furono messi all’asta «per far fronte ai debiti ereditari», e finirono in parte in Francia e in parte nella collezione privata di Hermann Göring. Fra i quadri, il Cristo portacroce dipinto nel 1538 dal Romanino sparı̀ dalla circolazione per ricomparire sul mercato dell’arte nel 1997, quando fu acquistato dalla Pinacoteca di Brera. Mentre la famiglia riuscı̀ a riottenere i quadri che in Francia erano confluiti nelle raccolte del Louvre, il museo italiano rifiutò recisamente di prendere un’analoga misura e fu solo grazie al fatto che l’opera venne prestata per un’esposizione a un museo americano che gli eredi riuscirono a riaverla in virtù della legislazione americana sulle opere sottratte alle vittime della Shoà, che recepiva i Washington Principles, paradossalmente sottoscritti anche dal governo italiano fin dal 1998, al pari della Terezìn Declaration, atti che, come ricorda Pavan, impegnavano «ogni stato partecipante a compiere ogni sforzo per rettificare le conseguenze di sequestri di proprietà illegali, confische, vendite forzate di beni ebraici».
In Italia l’unico caso di segno diverso è stato quello della collezione di antiche porcellane requisite all’ebreo tedesco Julius Kaumheimer nel 1939 e finite nelle collezioni del museo del Castello del Buonconsiglio di Trento che, dopo un primo rifiuto, furono restituite dapprima alla Comunità di Merano e in seguito, solo nel 2003, ai figli superstiti. Il libro di Pavan si articola in cinque capitoli che seguono un andamento cronologico. Il primo capitolo delinea quale fosse la consistenza numerica della popolazione ebraica in Italia e la sua composizione socio-economica. Il secondo è dedicato alla fase denominata della «persecuzione dei diritti degli ebrei», un capitolo assai importante perché mostra come la persecuzione degli ebrei fu condotta in questa prima fase storica unicamente dall’amministrazione fascista italiana, ben prima quindi dei venti mesi dell’occupazione nazista del biennio 1943-1945, ai quali è dedicato il capitolo 3. Il quarto e il quinto capitolo sono riservati rispettivamente alle misure risarcitorie dei governi italiani del dopoguerra (restituzione dei beni e reintegrazione nei posti di lavoro), ampiamente lacunose, e al tema dei beni sottratti agli ebrei nel contesto delle azioni giudiziarie intraprese a partire dagli anni Novanta del Novecento contro enti accusati «d’illeciti risalenti al periodo della persecuzione antisemita», contesto al quale va ricondotta la stessa creazione della già menzionata Commissione Anselmi. Poche le iniziative governative volte ad approfondire o estendere le indagini della Commissione Anselmi (e anche, addirittura, a diffonderne capillarmente la conoscenza nelle articolazioni statali e negli organi territoriali). Fra queste Pavan ricorda la creazione nel 2002 di una commissione istituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri per il recupero del patrimonio bibliografico della Comunità ebraica di Roma razziato nel 1943, con particolare riferimento, oltre alle biblioteche della Comunità ebraica della capitale, alla biblioteca del Collegio rabbinico italiano. Questa commissione ha licenziato un rapporto consultabile in rete (le raccolte librarie del Collegio rabbinico italiano sono state ritrovate, sebbene esse siano a giudizio della commissione probabilmente incomplete, mentre non è stata tuttora rintracciata la biblioteca della Comunità ebraica romana).
La conclusione a cui l’autrice perviene è che permanga «a ormai ottant’anni di distanza dagli eventi, […] una lettura della persecuzione antisemita, e non solo dei suoi risvolti economici, ancora autoassolutoria e reticente rispetto alle molte responsabilità italiane».

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