La determinazione come chiave per la consolazione

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Il 17 gennaio da trentaquattro anni è la giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei. La giornata fu istituita dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 1989 a seguito dello storico incontro nel Tempio di Roma tra rav Toaff z”l e il papa Giovanni Paolo II. Ogni anno la CEI e l’Assemblea dei Rabbini Italiani concordano un argomento biblico da approfondire. Ultimamente, ad esempio, sono stati affrontati i dieci comandamenti e le cinque meghillot. Quest’anno la proposta della CEI è stata quella di approfondire l’inizio del capitolo 40 di Isaia: «Nachamù nachamù ‘ammì – Consolate, consolate il mio popolo». La proposta è stata accolta non senza sorpresa da parte ebraica. Una sorpresa positiva, ma nata dal fatto che per noi ebrei questo è un passaggio molto sentito dal punto di vista liturgico. 
Questo brano viene letto nella haftarà del sabato successivo al digiuno del 9 di av che, come è noto, ricorda la distruzione dei due templi di Gerusalemme, ossia le due catastrofi che determinarono un primo esilio del popolo ebraico dalla Terra d’Israele, parzialmente poi rientrato a distanza di mezzo secolo, e quello definitivo seguito alla distruzione del Secondo Tempio da parte dei Romani. Questo esilio è vissuto come la causa primaria delle sventure occorse al popolo ebraico nel prosieguo della sua storia. Per questa ragione le tre settimane che precedono il 9 di av sono giorni in cui si attuano usanze luttuose progressivamente sempre più stringenti, in direzione opposta al normale e progressivo allentamento del lutto a partire dall’evento traumatico come, ad esempio, quello della scomparsa di un parente. Rav Soloveitchik sosteneva che il progressivo aumento delle usanze di lutto nelle tre settimane serve ad aiutarci a ricreare nel nostro animo la pienezza del lutto per la distruzione dei due templi. Tra gli ebrei romani, ma forse non solo tra quelli, c’è un’espressione: «ariva pe’ nachamù», riferita a una situazione che è attesa ma che tarda ad arrivare. In effetti la lettura della haftarà di Nachamù è un momento a lungo desiderato perché sancisce il termine di un periodo luttuoso. 
Nei sabati successivi al digiuno del 9 di av si leggono brani profetici di consolazione, nella tradizione sefardita per sei sabati. Il primo di questi è dunque Nachamù, “Consolate”. Ma chi deve consolare il popolo ebraico? Secondo diversi commentatori (tra cui cito il Malbim) la richiesta è rivolta ai profeti. Ma da una lettura attenta dei capitoli 40 e successivi, quello che emerge è la difficoltà da parte dei profeti di assolvere a questo incarico. Il popolo d’Israele non si lascia consolare. La disperazione è troppo profonda e lo fa diventare come un’erba secca. L’unica via possibile è che sia il Signore stesso a consolare il popolo e solo in questo modo il popolo ebraico può uscire da questo stato di disperazione e guardare con rinnovata speranza al futuro.
Consolare una persona disperata è una pratica assai difficile e complicata. Trovare il giusto equilibrio tra manifestare vicinanza e lasciare lo spazio di cui ha bisogno chi si trova nella disperazione richiede una particolare sensibilità. Non è a caso che nelle regole del lutto si prevede che i primi giorni dalla sepoltura non sia lecito aprire un discorso con la persona in lutto se non è lei a farlo. Tuttavia è doveroso far sentire la vicinanza e lasciar intendere che si è pronti a venire incontro alle necessità della persona che si ha di fronte. Una parola chiave in questo senso è l’empatia.

Uscendo dal caso del singolo e proiettandosi in una visuale storica, quella ebraica non è parca di momenti di disgrazia: schiavitù egiziana, distruzione dei templi, esili, cacciate, persecuzioni, sterminio. In ognuno di questi momenti, quando il popolo ebraico ha toccato il fondo, una salvezza, talvolta insperata, si è dischiusa per esso facendolo risorgere dalle ceneri delle disgrazie in cui era caduto. Nel seder di Pesach citiamo il verso biblico in cui è detto che, proprio quando salì il grido degli ebrei verso D-o dal lavoro che stavano facendo in Egitto, Egli ascoltò il loro lamento e si ricordò del patto con i patriarchi. Da qui partì il percorso che li portò fuori dall’Egitto.
Ma insieme alla disgrazia in sé, quello che pesa in questi frangenti è la perdita della speranza. Si perde la capacità di vedere anche quegli embrioni di rinascita che potrebbero portare quanto meno speranza, se non proprio consolazione. «L’erba si secca, il fiore appassisce», come troviamo proprio nella haftarà di Nachamù. È solo con una visuale su una finestra temporale più ampia che si può comprendere come la storia ebraica mostri una costante capacità del popolo ebraico di resistere e rinascere anche dai momenti più bui e tragici. Ma a questo punto è lecito chiedersi quale possa essere la risorsa a cui attingere in questi momenti.

Forse uno studio attento sulla radice verbale נחם,da cui viene il termine nachamù, che abbiamo tradotto con “consolate”, può darci un’idea interessante. La prima volta che il termine compare nella Torà è nella imposizione del nome di Noè, in cui è detto che questo figlio wenachamenu, che potremmo tradurre come fatto finora “ci consolerà” (Genesi 5,29). Da cosa dovrà consolare? Dalle nostre azioni e dalla corruzione in cui era caduta la terra. Pochi versetti dopo infatti ritroviamo questa forma verbale ma qui è riferita a D-o stesso in rapporto alla creazione dell’uomo, causa di tale corruzione. Ma non avrebbe senso tradurre che D-o si consolò di aver fatto l’uomo. Rashì su quel passo spiega che ogni volta che troviamo questo verbo il senso è che D-o cambiò approccio: da uno benevolo con cui aveva creato il mondo, a un approccio di diritto con cui giudicare le malefatte dell’uomo. Il senso è che fu chiaro a D-o cosa doveva essere fatto all’uomo. Il commentatore francese continua spiegando il senso della radice נחם  che è quello di cambiare radicalmente il proprio modo di vedere le cose e trovare determinazione per un nuovo percorso. 
Questo è alla base della consolazione. A seguito di un trauma, di qualsiasi genere, che cambia i connotati del nostro stare al mondo, finché non si riesce a comprendere quale sia la nuova missione della propria vita, non si riesce a trovare consolazione. Questo concetto può essere applicato al singolo ma anche a un popolo. Una delle chiavi di volta che ha permesso al popolo ebraico di uscire dai momenti di crisi più bui è quella di non aver mai ceduto all’idea che la propria missione fosse in discussione. La missione del popolo ebraico, e la determinazione di portare avanti il proprio messaggio al mondo, unico e autentico, sono state alla base della sua rinascita, poiché se la disperazione nasce dalla mancanza di una prospettiva, la consolazione consiste nel ripristinare la speranza e nel dare un nuovo programma al proprio futuro.

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