Edith Bruck: la scrittura come memoria

Edith Bruck (dalla copertina del libro Tempi, La nave di Teseo, Milano 2021).

La fiamma ardente del ricordo non smette di attenuare la propria luce; essa rimane perennemente accesa per prendere forma sul piano della scrittura. Ed è proprio il bisogno di raccontare al mondo, e soprattutto alle giovani generazioni, la tragica e straziante esperienza dell’Olocausto ad animare le opere di Edith Bruck. Scrittrice e poetessa, traduttrice e regista, Edith Bruck rappresenta una delle voci più autorevoli della letteratura del ventesimo secolo, testimonianza vivente della Shoà. Nata nel 1931 in un piccolo villaggio dell’Ungheria, ai confini con la Slovacchia, Edith Steinschreiber è l’ultima figlia di una numerosa famiglia ebraica. Poco più che dodicenne è vittima del clima di antisemitismo dilagante durante il governo filonazista. Agli episodi di intolleranza e alle umiliazioni subíte fanno seguito nell’aprile del 1944 il trasferimento forzato nel ghetto di Sátoraljaújhely e, cinque settimane dopo, la deportazione nel Campo di concentramento di Auschwitz dove persero la vita i suoi familiari. Insieme alla sorella più grande, Edith viene condotta in diversi campi tedeschi come Dachau e Bergen-Belsen per essere poi liberata nel 1945 dagli Alleati. La lunga agonia, vissuta all’insegna della sofferenza, della perdita, della negazione dell’identità, della quotidiana lotta per la sopravvivenza, viene riesumata con coraggio e forza poetica, rivisitandola attraverso varie figure della sua narrazione. La vicenda personale viene infatti più volte trasferita nelle protagoniste dei suoi romanzi, da Anita in Quanta stella c’è nel cielo a Ditke, figura centrale dell’ultimo romanzo Il pane perduto. In particolare in quest’ultimo libro, vincitore del Premio Strega giovani e del Premio letterario Viareggio-Rèpaci 2021, la scrittrice ripercorre attraverso Ditke le varie fasi della propria esistenza segnate da un continuo ritorno alla vita. L’incipit del libro rimanda a quello di una fiaba. Tuttavia ben presto il lettore si accorge di come il topos idilliaco, proprio di questo genere letterario, venga rovesciato dalla stessa scrittrice al fine di sottolineare come nulla vi è di utopico in questa storia. La vicenda di Ditke è quella di un’infanzia rubata, segnata dall’estrema povertà, nella quale si insediano i primi germi dell’intolleranza e dell’odio razziale per poi passare al trasferimento forzato nel ghetto. Durante questa parentesi si inserisce l’episodio da cui prende il titolo il libro e che rappresenta l’elemento culminante di tutta la storia. Alla vigilia della Pasqua ebraica, la madre di Ditke si accinge a preparare il pane azzimo tanto agognato dalla famiglia; tuttavia nessuno di loro riuscirà a goderne neanche di una briciola a causa dell’irruzione dei gendarmi fascisti che li conducono con la forza sul treno per Auschwitz. Il pane perduto non è solo il vuoto prodotto dalla fame, segno di un’esistenza caratterizzata dall’estrema povertà, ma questa immagine si carica di ricordo malinconico. Il pane perduto diviene così il simbolo di un vuoto più profondo segnato dalla perdita della madre, vittima dell’assurda ed inspiegabile ferocia nazista. Dal momento della deportazione fino alla fine del libro si realizza un cambio di prospettiva dalla terza alla prima persona singolare, per cui Ditke lascia il posto alla stessa Bruck. Attraverso questa strategia narrativa il lettore diviene intimamente coinvolto nell’indicibile e faticosa lotta per la sopravvivenza. Anche il ritorno alla vita, dopo la liberazione, è un essere dispersi nel mondo dei vivi, in una condizione di smarrimento e ricerca continua. L’agognato rientro in patria si rivela un’amara delusione.

Il clima di distruzione e la vittoriosa presenza dei nuovi occupanti, uniti alla fredda accoglienza degli abitanti e degli stessi familiari, rafforzano nella sopravvissuta il senso della perdita. Invano quel vuoto riesce a essere colmato con l’approdo nel nascente Stato di Israele. Anche nella terra promessa, invocata dalla madre, non vi è infatti spazio né per essere accolti, né per ricominciare. Così dopo una serie di matrimoni fugaci e lavori saltuari, l’Io narrante diviene ballerina presso una compagnia di girovaghi e, dopo varie tappe, giunge alla fine in Italia, dove deciderà di stabilirsi definitivamente. Il desiderio di ricominciare si intreccia fortemente con la necessità di superare il silenzio della dimenticanza e indifferenza, in cui si era fino a quel momento imbattuta, per – finalmente – ricordare e raccontare. Ad agevolare il processo di ricostruzione del proprio vissuto è l’adozione della nuova lingua, l’italiano, che, a differenza di quella natia e di quella tedesca, si presenta priva di ricordi.
Bruck riesce a raccontare ciò che per alcuni sopravvissuti è risultato essere o risulta essere tuttora indicibile e lo fa con estrema semplicità e schiettezza, senza filtri né artifici linguistici, superando la barriera tutta interiore del dolore. Se la scrittura ha rappresentato, come la stessa Bruck ha dichiarato, una vera e propria terapia, il bisogno di narrare significa ritornare di nuovo alla vita, consapevole di un passato che deve essere solo raccontato affinché non si ripresenti. Il messaggio della Bruck si concretizza in un vero e proprio impegno civile, morale ed educativo che invita il pubblico alla riflessione, alla presa di coscienza del passato, in un monito di continua vigilanza che rimanda al presente. Ed è proprio alle giovani generazioni che la sua voce si fa più forte ed intensa educandole alla comprensione, alla solidarietà e alla tolleranza verso altre culture al fine di contrastare il clima di antisemitismo, razzismo e xenofobia che imperversa in tutto il mondo. La luce della memoria è anche luce della speranza. Durante la presentazione di Il pane perduto (in fase di traduzione in Germania) nel gennaio 2022 presso la Neue Synagoge – Centrum Judaicum di Berlino, la scrittrice ribadisce di aver scorto nel lungo periodo di prigionia cinque luci. Si tratta di cinque tracce di umanità che l’hanno indotta a credere come nulla fosse perduto. Gli episodi riportati, tra cui il dono inaspettato di un guanto e di un po’ di marmellata e la richiesta del proprio nome, rappresentano il lascito di un insegnamento di vita proteso all’amore e al perdono.

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