Rinnovamento

La dimensione ebraica del tempo oscilla tra linearità e circolarità, tra ritorno e prospettiva, tra memoria e speranza. Questa duplicità profonda, e compresente, è ben indicata nelle parole con cui l’ebraico indica due “segnatempo” di base: il mese e l’anno, quelle unità di misura con cui l’uomo costruisce il procedere del tempo. Shanà, anno e chodesh, mese, ci dicono il ripetersi della circolarità – la radice shanà significa appunto ripetere, duplicare (vedi shenayim, due) – e la successione imprevedibile (la radice chadash significa infatti nuovo). Il tempo dunque – un tempo in prospettiva esistenziale ed esperienziale – contiene le due dimensioni: ripercorriamo circolarmente la storia con delle fermate prestabilite e memoriali – i momenti chiave dell’anno, quegli appuntamenti che sono appunto i mo‘adim – ma dobbiamo essere in grado di mettere in moto il meccanismo del rinnovamento, della novità.
Ripassare per la stessa fermata non può e non deve mai essere una pura e semplice ripetizione. Non è un caso, forse, che nella Torà le date delle ricorrenze siano sempre legate al mese, al chodesh, come ad indicare questa prospettiva che nel ricordo e nella riproposizione si rinnova. E forse per questo la prima mitzwà del popolo ebraico nella sua collettività, il punto della Torà che dovrebbe essere il suo inizio ebraico, è la mitzwà del primo mese, della prima innovazione.
Delle leggi consegnate al popolo ebraico, la prima, rivelata dall’Eterno a Mosè già in terra d’Egitto, riguarda il calcolo del tempo: «Allora il Signore parlò a Mosè e ad Aronne nel paese d’Egitto dicendo: “Questo mese [nissan] sarà per voi il principio dei mesi dell’anno […]”.» (Esodo 12,1-2).
Secondo l’esegesi rabbinica, quando l’Eterno ha ordinato a Mosè il precetto del calcolo del tempo gli avrebbe fatto vedere la luna nuova affinché tramandasse alle future generazioni le modalità per stabilire il capomese. Fu quella la data di inizio di un calendario del tutto particolare i cui tempi sono scanditi essenzialmente dalle fasi lunari oltre che dall’avvicendarsi delle stagioni.
Nella doppia struttura solare e lunare, con il sole immobile che sembra agli uomini girare incessantemente sulla stessa orbita e la luna che cresce e cala ogni mese, rinnovandosi, la prospettiva ebraica è spostata più verso quest’ultima. È quindi di fondamentale importanza cercare di comprendere i motivi della coincidenza del capomese con il novilunio nel calcolo ebraico del tempo.
Molte spiegazioni sono state avanzate per giustificare la preferenza accordata dall’ebraismo al ciclo lunare piuttosto che a quello del sole. Sin dai primordi dell’umanità una particolare relazione ha legato l’astro lunare alla vita dell’uomo. La luna nella sua periodicità fa sì che sia considerata l’astro dei cicli della vita che stabilisce le scadenze dei ritmi, in particolare delle piogge, della vegetazione, della fertilità e della fecondità. In secondo luogo, questa relazione è stata determinata dal fatto che ambedue gli esseri risultano assoggettati alla legge del “divenire” ovvero a momenti in cui si cresce, si cala e si sparisce, o piuttosto in cui si cala, si sparisce e si cresce. Ma si badi bene: anche la scomparsa della luna è seguita sempre da una rinascita, “la luna nuova”, per cui mai la morte è da considerarsi definitiva.
Questi motivi sono talmente presenti nell’ebraismo, che la luna ha occupato un posto di grande rilievo nella tradizione ebraica. Nella coscienza ebraica la luna è diventata per l’individuo una specie di archetipo, una specie di memoria continua e perenne.
Il rinnovarsi della luna diviene quindi il simbolo di un rinnovamento spirituale e psicologico.
Questo aspetto viene accentuato in quella ricorrenza molto sentita presso il popolo ebraico che è il Rosh chodesh, il novilunio, letteralmente “Capo mese”. La parola “chodesh” vuol dire mese, ma deriva dalla radice “chadash” che significa “nuovo”, indicando l’idea di rinnovamento e di palingenesi.
Per l’ebraismo l’uomo, come il ciclo della luna, deve tendere a rinnovare ogni mese le sue fasi alla ricerca della sua identità.
Viene riconfermata questa preferenza accordata dal calendario ebraico al ciclo lunare rispetto a quello del sole, come a dire che non basta rinnovarsi una volta ogni 365 giorni, non è sufficiente; l’intervallo deve essere più breve come quello suggerito dal ciclo biologico della donna (29 giorni e mezzo), posta non a caso al livello più alto dell’evoluzione.
La forza e lo splendore del sole cessano con il tramonto, la grandezza del sole ha un limite, il sole ha un tramonto; la luna viceversa, pur se più piccola del sole, pur se meno luminosa, pur se invisibile ai nostri occhi abbagliati dalla luce solare, è presente anche durante il giorno, non c’è un tramonto della luna. La rinascita della luna dopo la sua apparente scomparsa ci rammenta che nemmeno la morte dell’uomo è da considerarsi definitiva. Vi è una precisa indicazione nella Tradizione ebraica che permette di non essere sotto il dominio esclusivo del sole. «En chadash tachat ha-shemesh – non c’è niente di nuovo sotto il sole», dice il Qohelet, come a dire: non c’è novità sotto il dominio, sotto la civiltà del sole. Perché il rinnovo radicale è il non progresso, cioè le grandi civiltà finiscono nei musei e sono sostituite da altre grandi civiltà e basta, che finiranno nei musei. Il culto del ricordo e della memoria non “generazionale” non è “in progress”, “en chadash” , “non c’è novità e crescita”. L’immagine della luna ci indica altresì una dimensione scevra da trionfalismi: da qui nasce una sensibile attenzione a qualsiasi incompiutezza, a qualsiasi carenza. La fisionomia della luna non è mai uguale a se stessa e ogni giorno modifica la sua rappresentazione di sé. La sua pienezza a metà mese è l’illusione di un giorno, perché il giorno successivo è già luna calante.

Da qui il segreto di fare di questa carenza e di questa incompletezza una forza, un’opportunità, fino a fondare l’identità di Israele su questa carenza. Non a caso coloro che hanno tentato di sopprimere la continuità ebraica, e tra questi in particolare l’Ellenismo, hanno cercato di proibire tre precetti fondamentali della tradizione ebraica: chodesh, Shabbat e milà (circoncisione). Cosa hanno in comune questi tre precetti? E perché l’Ellenismo si è accanito in particolar modo contro l’osservanza di essi? L’istituto del Rosh chodesh, come si è detto, si riferisce al tempo della luna nuova, quando la luna presenta alla terra la sua forma maggiormente diminuita. Celebrando lo Shabbat si interrompono i rapporti produttivi ed economici nell’ambito dei quali ci si muove durante la settimana, astenendosi altresì da qualsiasi atto creativo che in qualche modo modifichi l’esistente. Il trasferimento dalla dimensione spaziale, regno delle cose concrete, alla dimensione temporale, regno della vita spirituale, ci richiede di prender coscienza, con serenità, dell’incompiutezza dei nostri progetti. Ciò succede anche assolvendo il precetto della milà, dove correggiamo, amputando una parte dell’organismo, una creazione anatomicamente completa e perfetta. Tre situazioni in cui si accetta, evidenziandola, la disarmonia del creato, l’imperfezione fisica e intellettuale dell’uomo. Concetti, questi, che non potevano essere accolti dal pensiero e dall’etica dei Greci, che facevano della perfezione fisica e della compiutezza intellettuale i più alti valori dell’umanità. La festa di Chanukkà, che ricorda lo scontro con l’Ellenismo, è l’unica ricorrenza che inizia negli ultimi giorni del mese, con la luna calante, e finisce otto giorni dopo, con la luna crescente, e che contiene quindi al suo interno un novilunio, al contrario di tutte le altre feste che coincidono con il plenilunio o con i giorni in cui la luna è crescente, assurgendo a paradigma di situazioni di pienezza. Il Rosh chodesh (la neomenia) richiama la capacità di rinnovarsi come si rinnova la luna che cresce e decresce, o piuttosto che decresce per poi crescere. In questo senso il Rosh chodesh assomiglia a un piccolo Kippur, e difatti è chiamato anche zeman kapparà, un “tempo per la riparazione”, poiché per rinnovarsi bisogna rimpiccolire se stessi, è necessaria l’umiltà. Il diminuire della luna rappresenta infatti anche un invito alla modestia e all’umiltà, presupposti necessari per mettersi in discussione e per essere all’altezza della casualità, per strapparsi a un cammino preordinato. Si vuole rimediare all’alienazione dell’abitudine e interiorizzare un comportamento che trascenda una struttura temporale che crea inevitabilmente una ripetizione delle esperienze in cui l’essere si conserverebbe identico a se stesso. 
Ancora una volta l’ebraismo deve compiere una scelta di minoranza, identificandosi con la luna.
È troppo facile apparire di giorno, quando tutto è chiaro e visibile, ben più difficile saper far luce nell’oscurità della notte quando la luce diviene veramente indispensabile per chi deve affrontare i rischi e le difficoltà. Nei Salmi si dice lodare Dio consiste nel «narrare la Sua misericordia durante il giorno e la Sua fedeltà durante le notti» (Salmo 91,3). Ed è soprattutto nella notte dell’esilio e nella notte della sofferenza che il popolo ebraico ha affermato la sua fedeltà.

Ma la dinamica ripetizione-innovazione oltrepassa la dimensione puramente temporale: essere se stessi e saper cambiare, riconoscersi allo specchio e crescere sembrano punti di fondo dell’essere dell’uomo nel mondo.
Insegna rabbi Tzadoq ha-Kohen: «così ho ricevuto: che l’intero mondo è un libro che il Signore, sia benedetto, ha fatto e che la Torà è il commento che Egli ha composto su quel libro».
La Torà non è altro che un commento al grande libro del mondo: studiarla dà forse la parvenza di senso al nostro esserci e al nostro essere. E nello studio della Torà si ripresenta identica la stessa tensione tra ripetizione e innovazione individuale, tra tradizione e ricerca, tra maestro e discepolo. Anche in questo caso i termini confermano: shanà e chodesh, le stesse espressioni temporali viste, sono anche le modalità di studio. La Torà deve essere ripetuta continuamente, deve essere duplicata: studiare è ritornare sulle stesse parole, anche imparare a memoria, sentire ogni giorno le stesse cose: ecco allora «weshinnantam levanekha – le ripeterai ai tuoi figli», ecco anche la Mishnà, il testo fondamentale della Tradizione rabbinica, la scrittura della Torà orale: espressioni derivate da shanà, ripetere. La Tradizione sembra questo, come in parte indica l’inizio dei Pirqé Avot: ricevere per trasmettere. Ma la più grande operazione di studio, quella che i grandi della Torà cercano nel loro attaccamento a questo commento al mondo, è il chiddush: l’interpretazione innovativa e rinnovante. E dunque anche nella Torà, come in fondo nel mondo che essa commenta, c’è prosecuzione, c’è successione, c’è continuazione, ma ci deve essere anche novità e rinnovamento. Studiare la Torà vuol dire essere in grado, nella ripetizione, di dire novità. Vuol dire giocare la scommessa di trovare nell’antico, anzi nel perenne, ciò che è assolutamente nuovo.
Lo studio della Torà più che un dovere o un obbligo è una condizione esistenziale di dinamismo e continuità tesa a scuotere il soporifero corso della vita naturale. Ecco perché vivere con la Torà significa giudicare non tanto per ciò che fai quanto piuttosto per ciò che non fai e che potresti fare, quello che ti aiuta a divenire un talmid chakham, un discepolo di un Saggio, che ti fa capire che non c’è una banca di sapere ma che il sapere è consapevolezza della nostra incompletezza e limitatezza.
Forse è questo il motivo per il quale nel Talmud non esiste la pagina numero uno. Si inizia sempre dalla pagina due, per insegnarci che pur se pensi di aver studiato tanto ti mancherà sempre una pagina!

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