I Waldmann. Storia di una famiglia in fuga

Lettera di Franziska Waldmann, Castrovillari, 15 gennaio 1941
Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, Fondo Israel Kalk, sezione “La Mensa dei bambini di Milano con sezioni nei campi di concentramento”. Copyright Cdec.
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Dallo scoppio della guerra in Ucraina anche in Maremma sono giunte molte famiglie in fuga dal conflitto, e lo Stato italiano ha applicato le tutele previste per i titolari dello status di rifugiato.
Ottant’anni fa questo non accadde. E vennero sistematicamente perseguitate tutte le famiglie che cercavano di salvarsi dall’antisemitismo, in atto nell’Europa intera.
Questo tema è stato analizzato da due illustri studiosi della persecuzione ebraica nella provincia di Grosseto, Giuseppe Celata e Ariel Paggi, entrambi recentemente scomparsi. Per anni Paggi ha raccolto documenti d’archivio, testimonianze orali, e ogni tipo di informazione utile a ricostruire le peripezie delle famiglie perseguitate, tra le quali i Waldmann. 
In base alla geografia odierna possiamo definire ucraini i coniugi Waldmann, anche se l’Ucraina tra gli anni Venti e Trenta era contesa da russi, polacchi, tedeschi. Il marito, Srul, era nato nel 1890 a Nemyriv, la cui comunità ebraica fu sterminata nel novembre del 1941. La moglie, Henriette Cecile Zundler, era nata nel 1891 a Leopoli che, nell’Impero austroungarico, era stata capitale del regno di Galizia, e – tra le due guerre – capitale del Voivodato di Polonia. Ma in Ucraina gli ebrei vivevano tutti i tragici aspetti del XX secolo. Quando Srul e Henriette erano adolescenti hanno forse visto i pogrom che nel 1905 dalla Russia si propagavano fino al Mar Nero; poi le feroci ritorsioni che caddero sulla comunità ebraica nel 1918, anno cruciale che sommava la guerra civile russa con il crollo dell’Impero asburgico e, dalla fine degli anni Venti, la grande carestia, che sfociò nell’holodomor. L’antisemitismo era sempre più forte e molte famiglie cercarono una terra più ospitale. Parte dei Waldmann o degli Zundler si trasferirono a Varsavia, mentre Srul e Henriette, che era vedova di Solomay, si insediarono forse già alla fine degli anni Venti a Parigi. Qui, nel 1932, nacque Franziska, due anni dopo i Waldmann si spostarono a Varsavia, poi tornarono a Parigi, dove nel 1936 diedero alla luce Albert. Non sappiamo quale fosse il loro ruolo sociale, ma tutto lascia pensare che fossero di buon livello culturale.  

Nella Francia degli anni Trenta gli ebrei si sentivano protetti dalla politica di Lèon Blum, ma l’ascesa dei fascisti ne provocò la caduta e dal 1938 iniziò un terribile antisemitismo, fattore che, unitamente allo scoppio della guerra, portò i Waldmann a cercare una via di fuga. Non era pensabile raggiungere il resto delle loro famiglie né in Ucraina né a Varsavia, dove la persecuzione contro gli ebrei aveva raggiunto una ferocia inaudita. 
A due mesi dall’invasione tedesca della Polonia i Waldmann cercarono riparo in Italia. Perché l’Italia? Innanzitutto, perché non era entrata in guerra, secondariamente perché gli ebrei la consideravano un punto di transito per raggiungere l’America imbarcandosi da Genova, e per arrivare in Palestina dai porti dell’Adriatico. Il fatto che il piccolo Albert sia documentato nella frontiera del Carnaro lascia pensare che la famiglia avesse l’intenzione di raggiungere Trieste, dove esisteva una comunità sionista in grado di aiutarli nel viaggio verso la terra promessa. Qualcosa però andò storto; nel dicembre 1939 tuttavia i Waldmann riuscirono ad ottenere un visto turistico per Milano, forse con l’aiuto della DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei). Il visto era comunque di pochi mesi, spesso non sufficienti a concretizzare un’opzione di viaggio fuori dall’Italia. In un momento nel quale gli ebrei italiani soffrivano giorno per giorno l’oppressione delle Leggi razziali che li estromettevano dalla società, si permise l’entrata in Italia a quelli stranieri. Probabilmente le amministrazioni italiane furono interessate ai guadagni che il rilascio del visto comportava e a schedare gli ebrei stranieri in ingresso, per poterli controllare. Per un anno i Waldmann vissero a Milano, dove affluivano migliaia di profughi da tutta Europa, in cerca di un visto per l’espatrio. Israel Kalk, un ingegnere lituano che viveva a Milano, si rese conto della problematicità di sopravvivenza di queste famiglie: cambiare i loro denari in lire, impegnare i beni che erano riusciti a portare con sé. Molte pativano la fame, per questo Kalk nel 1939 organizzò per i bambini una mensa, che era anche un doposcuola; Franziska forse imparò l’italiano in questa mensa o alla scuola israelitica di via della Spiga, veramente multietnica, perché accolse molti profughi e solo la metà degli alunni parlava italiano. 
Presto, però, i Waldmann, come tutti gli ebrei stranieri, furono privati della cittadinanza in Europa; la residenza in Italia fu compromessa dalla scadenza del visto, dalle Leggi razziali e, dal 15 giugno 1940, dalla legislazione bellica. Difficile comprendere la logica attuativa di uno Stato che, al momento in cui deve affrontare le spese di una guerra, investa risorse finanziarie, mobiliti soldati e un considerevole apparato amministrativo per accanirsi su migliaia di famiglie ebraiche straniere, che giunsero in Italia con l’intenzione di ripartire al più presto. I profughi furono invece costretti a rimanere, in condizione umilianti e a spese dello Stato italiano, spostati da un centro detentivo all’altro dal Nord al Sud dell’Italia. In attesa della loro soluzione finale. Una follia. 

Con l’entrata in guerra dell’Italia gli ebrei vennero giudicati nemici e per i Waldmann si propose un copione già strutturato: arrestare il capofamiglia, potenzialmente pericoloso, e rendere inermi moglie e bambini, deportandoli nell’altro capo dell’Italia, a Castrovillari, in provincia di Cosenza. Qui i bambini risiedevano nel Municipio, in difficili condizioni. La DELASEM cercava di garantire almeno la colazione ai piccoli nei centri di detenzione e l’invio di pacchi con generi di prima necessità: cibo, vestiti, quaderni. Due lettere indirizzate a Kalk, scritte da Leo Friedrich e da Israel Weinberger, citano i piccoli Waldmann con i loro soprannomi: Madel e Bub. Con questi scritti i ragazzini chiedevano abbigliamento e scarpe perché in due anni di internamento erano cresciuti e tutti i loro abiti andavano stretti. Sono testimonianze eccezionali che ci aprono uno spaccato nella vita quotidiana di questi fanciulli. Anche Franziska ringraziò Kalk per il pacco ricevuto, con una lettera scritta su un quaderno di terza elementare, ed è al momento tutto ciò che ci resta di lei. La bambina ricorda la cioccolata, per avere l’occasione di dire che il loro babbo gliela mandava prima di essere incarcerato. La lettera è stata sicuramente elaborata dagli adulti per recapitare informazioni sulla detenzione del padre a San Vittore, raggirando la censura. Henriette aveva ripetutamente chiesto la ricongiunzione con il marito, dimostrando essere stata una donna forte e combattiva, che ha continuato a trattare incessantemente per i propri cari. Successivamente Henriette si trasferì a Ferramonti, che era il più grande Campo di concentramento fascista italiano. Qui finalmente riuscì a ricongiungersi con il marito. Ma per il sovraffollamento del lager, il Ministero dell’Interno dispose che molte famiglie fossero spostate a nord, in remoti luoghi di internamento coatto. Nel settembre del 1941 una trentina di persone furono così ripartite nei paesi montani della provincia di Grosseto. La logica della divisione fu grosso modo quella della nazionalità: ad Arcidosso e a Cinigiano i tedeschi, a Castel del Piano gli inglesi, a Civitella gli jugoslavi, a Roccalbegna i polacchi.
Le famiglie “polacche” Waldmann, Zeller e Zoltowski viaggiarono in treno fino a Grosseto, per poi raggiungere Roccalbegna in autobus. Nel foglio di via redatto dal comandante di Ferramonti trapela un aspetto umano: si chiede al personale del treno che i profughi siano aiutati durante il viaggio. Intanto il Questore avvisava il podestà di Roccalbegna della loro presenza, stabilendo che spettavano loro L. 50 mensili per l’alloggio e per il vitto L. 18 giornaliere. Le famiglie erano vigilate dai Carabinieri, non avevano documenti, non potevano allontanarsi, la corrispondenza era controllata. 
Subito si configurarono delle problematiche. Mentre si cercavano di ospitare i profughi giuliani, alcuni possidenti contestarono il fatto che fossero date agli ebrei le loro abitazioni arredate, in quanto i tre nuclei familiari erano sprovvisti di suppellettili e il sussidio giornaliero non copriva queste spese. Alcuni furono solidali, come le Friggeri, che offrirono lenzuola e coperte. Proprio per sdebitarsi con chi aveva prestato loro aiuto, i Waldmann e gli Zeller confezionavano modesti capi in pelliccia. Ma suscitavano il rancore dei paesani, che li denunciarono. Neppure il Questore credeva alle accuse perché non dava un utile sufficiente al loro sostentamento, pur percependo il sussidio statale.
Intanto mentre gli altri bambini andavano a scuola, Franziska e Albert rimanevano a casa. A nulla valsero le suppliche della mamma alle maestre: le Leggi razziali non permettevano ai bambini di religione ebraica di essere istruiti. Franziska soffriva molto quel forzato isolamento. E rimaneva schiva, il volto tra le sue trecce castane, in disparte tra i bambini del posto. Bub invece con la chioma bionda e giocava con maggior serenità. Chissà se anche lui aveva imparato a leggere e a scrivere. 

A Roccalbegna i Waldmann rimasero dal 26 settembre 1941 fino al 12 dicembre 1943, quando furono arrestati dalla milizia fascista per essere condotti al Campo provinciale di Roccatederighi, realizzato nel seminario vescovile, dove dodici giorni prima erano già state concentrate le famiglie italiane. Qui arrivarono tutti gli ebrei stranieri internati in Maremma, un centinaio di persone, in sovraffollamento, ma era una situazione temporanea, in vista della soluzione finale. 
Da Roccatederighi ci furono due partenze che portarono allo sterminio una cinquantina di persone e solo l’arrivo degli Alleati, il 9 giugno del 1944, bloccò i viaggi seguenti, ma non riuscì a fermare coloro che erano nel tragitto della morte. I Waldmann furono selezionati nel viaggio del 7 giugno; dopo una sosta a Scipione di Salsomaggiore (Parma), furono condotti a Fossoli il 15 giugno. Partirono il 26 giugno per Auschwitz, su un convoglio che conteneva 550 persone, di cui sappiamo il nome, elencato nella Transport List. Il treno giunse a destinazione il 30 giugno. Albert e Franziska furono assassinati il giorno stesso dell’arrivo, probabilmente nelle camere a gas. Henriette e Srul vennero uccisi successivamente, in data incerta. Delle famiglie che avevano condiviso il loro internamento si salvarono i coniugi Zeller.

Subito dopo la fine della guerra, la DELASEM cercò di recuperare i loro bagagli lasciati in Maremma, ma solo nel gennaio 1946 Zjisia Waisbord recuperò quelli di Soltowski, Waldmann e Turteltaub; la questione fu lunga, perché la Questura voleva capire l’entità dei beni. Gli inventari invece rivelano bagagli modesti in quanto i profughi erano stati ormai spogliati di tutto in oltre quattro anni di internamento.
L’interesse di mettere le mani sulle ipotetiche fortune degli internati è evidente, d’altronde pochi mesi prima era stata messa in atto la «liquidazione dei beni degli ebrei maremmani» dal Ministero dell’Interno italiano, in collaborazione con le Questure e le Prefetture. Italiani e “stranieri” erano stati condannati allo stesso destino non solo dalle forze di occupazione, ma anche dal governo nazionale. Al momento dell’arrivo dei Waldmann, in Italia vennero emanati tre regi decreti che determinarono chiaramente qual era il trattamento riservato ai «cittadini italiani e stranieri già dichiarati o considerati di razza ebraica». Nessuna via di fuga era contemplata.

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