Storie di una diaspora. Intervista a Samuel Zarrugh

Anziani ebrei di Bengasi, 1900-20 (Fonte Wikipedia.org).  

La diaspora degli ebrei originari dei Paesi arabi e dell’Iran costituisce una delle tante pagine tristi del secolo scorso e, per certi aspetti, ancora oggi non particolarmente nota al mondo non ebraico. Si stima che furono circa 850.000 gli ebrei costretti ad abbondonare le proprie case, a fuggire unicamente a causa della loro identità dai Paesi in cui avevano vissuto per secoli, e addirittura da millenni, senza più farvi ritorno. Molti emigrarono in Israele, altri in Nord e Sud America, e infine in Europa.
Tra le molteplici diaspore, ci soffermeremo su quella libica, e lo faremo attraverso le parole di una delle colonne portanti della Comunità ebraica di Livorno: Samuel Zarrugh. Samuel è stato presidente della Comunità ebraica di Livorno per più di tre mandati, vicepresidente della Comunità per oltre quindici anni, lettore della Torà e cantore in sinagoga, oltre che punto di riferimento per le istituzioni labroniche. Ho avuto il piacere e l’onore di intervistare Samuel una domenica pomeriggio dello scorso dicembre, nel suo negozio di profumi a Livorno. Ho sempre apprezzato lo spirito cosmopolita di Samuel che gli consente di sapersi relazionare a qualsiasi persona dal diverso retroterra culturale, politico e religioso, e quella sua spontanea cordialità – tipicamente mediterranea – che, unita alla propensione al dialogo, è tale da far sentire a casa il suo interlocutore. 
Abbiamo pertanto ripercorso i tragici eventi dell’ultimo feroce pogrom di Tripoli e Bengasi del 5 giugno 1967, giorno che segna un punto di non ritorno nella vita di Samuel e della sua famiglia.  Le tracce della presenza ebraica – mi ricorda Samuel – nel territorio dell’attuale Libia sono particolarmente antiche. Si presume che gli ebrei vi abbiano vissuto a partire dal 586 a.C., anno della distruzione del Primo Tempio di Gerusalemme. Da allora si sviluppò, per oltre un millennio, la convivenza con la popolazione locale, i berberi del Nord Africa. Fu una convivenza pacifica e proficua per entrambi i popoli. Successivamente, dopo un breve periodo di dominazione spagnola a seguito della caduta dell’Impero Romano d’Oriente (1453), la regione divenne parte dell’Impero Ottomano fino al 1911, data di inizio della breve dominazione italiana e poi inglese dal 1943, e infine araba dal 1951, una volta ottenuta l’indipendenza.
Non vi furono contrasti fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. L’atmosfera cominciò a cambiare radicalmente intorno al 1945 a causa del nazionalismo dilagante che trovava terreno fertile nell’ostilità alla nascita del nuovo Stato d’Israele. Già all’epoca, infatti, si registra un’ondata di violenza inaudita sulla popolazione ebraica. Altri atti di aggressione, dei veri e propri pogrom, hanno luogo soprattutto a Tripoli nel giugno del 1948, all’indomani della fondazione dello Stato d’Israele. Tra il 1949 e il 1951, infatti, più di 32 mila ebrei emigrano in Israele alla ricerca di una nuova vita al sicuro. Infine, l’ultimo feroce pogrom del 5 giugno 1967, all’epoca della Guerra dei sei giorni. Fu proprio in quell’anno che gli ultimi 5 mila ebrei fuggirono dalla Libia con una sola valigia e venti sterline a persona, abbandonando le proprie case, il Paese in cui avevano vissuto da intere, lunghe, generazioni, senza più farvi ritorno.  Questa breve introduzione permette di collocare adeguatamente una vicenda personale densa di sofferenza, che occorre assumere come dimensione basilare del racconto.

Com’era la tua vita prima del 5 giugno del 1967?  

Quando lasciai il mio Paese avevo ventitré anni. Personalmente, ho ricordi di un’infanzia trascorsa felicemente con i miei genitori, con le mie sorelle e i miei fratelli nella città di Bengasi. Non ho mai sofferto di episodi di bullismo. Dopo la chiusura delle scuole ebraiche, frequentai le scuole arabe e ancora oggi nutro dei bei ricordi delle grandi amicizie vissute all’epoca e di docenti altrettanto validi. Tuttavia, non c’era una vera e propria integrazione. Vigeva allora – come penso abbiano vissuto gli ebrei europei – una situazione che definirei di “tolleranza nella convenienza”, ovvero fino a che tutto andava bene, allora anche la condizione di noi ebrei era tutto sommato accettabile; ma non appena tirasse un vento sfavorevole, sorgeva sempre il timore che avrebbero potuto esserci ripercussioni di vario tipo.
Noi vivemmo sotto la benevola monarchia di re Idris, il quale era un uomo illuminato, particolarmente ben disposto verso la componente ebraica della popolazione libica. Ciononostante, eravamo “cittadini e non cittadini”. 

Puoi spiegarmi più chiaramente cosa significasse davvero, nella pratica quotidiana, essere “cittadini non cittadini”?

Tante cose non ci erano permesse perché sostanzialmente non godevamo degli stessi diritti della popolazione araba. Te lo spiego con un esempio che ho vissuto in prima persona. La maggior parte degli ebrei non aveva la cittadinanza, solo qualche famiglia l’aveva ottenuta grazie a qualche amicizia con un cittadino arabo di “alto livello” o perché in possesso di una motivazione “ritenuta” valida. Questo fu per l’appunto il mio caso: dovendo frequentare l’università, necessitavo di avere la cittadinanza e pertanto presentai domanda che fortunatamente venne accolta positivamente proprio perché la mia motivazione fu “valutata” come giusta e pertinente. In uno stato di diritto, non esiste questo margine di discrezionalità da parte delle istituzioni per certe questioni. Se altrimenti avessi fatto richiesta del passaporto per motivi generici di viaggio, non mi sarebbe stato concesso; il resto della popolazione ebraica, disponeva solamente di un documento di viaggio. Vigeva una situazione di incertezza, ovvero, si aveva letteralmente la sensazione che la propria condizione potesse cambiare da un momento all’altro. Insomma, si stava sempre sul chi vive, all’erta del minimo sentore di eventi per noi potenzialmente avversi. Posso farti un altro esempio: ricordo che tutti gli anni dalla scuola media fino all’università, veniva assegnato un tema in classe: “Che cos’è la rivoluzione algerina e il problema palestinese”; ovviamente, non ero libero di esprimere il mio pensiero, ma dovevo mimetizzarmi con i miei compagni arabi musulmani scrivendo la versione – una e sola! – che era socialmente accettata e condivisa. Oggi, grazie ai social media, ho avuto modo di ritrovare molti amici di gioventù con cui sono ancora in contatto. 

Quali sono i tuoi ricordi di quel tragico giorno?

Ricordo chiaramente che era un lunedì mattina. Mi stavo recando all’università per sostenere l’esame di Diritto civile, quando – arrivato davanti alla facoltà di Economia – vidi una manifestazione piuttosto agitata. Radio Libia aveva appena trasmesso la notizia che Egitto e Israele erano entrati in guerra. Tornai immediatamente a prendere l’auto che avevo parcheggiato, incontrai mio fratello e decidemmo di andarcene via. Tutti per strada, nelle case, nelle scuole, sui luoghi di lavoro, tutta la popolazione era sintonizzata su Radio Cairo, la quale trasmetteva in diretta le parole, drammaticamente carismatiche, del presidente egiziano Gamal Abd el-Nasser alla nazione e a tutto il mondo arabo che incitava ad uccidere gli ebrei e a scacciare gli americani. I negozi degli ebrei in città vennero presi d’assalto e dati alle fiamme; nella mia Bengasi non ci furono uccisioni, mentre a Tripoli molti ebrei vennero assassinati brutalmente; un macellaio venne sgozzato nel suo negozio. Ricordo ancora oggi quella sensazione che mi attraversò improvvisamente durante il tragitto verso casa; per la prima volta, mentre guidavo lungo strade a me così familiari che ero solito percorrere quotidianamente, avvertii chiaramente di essere in pericolo di vita. In un istante, quelle strade non erano più le mie strade. Stavo guidando e ci trovammo nel bel mezzo di un altro gruppo di manifestanti animati da impulsi aggressivi e finimmo per essere presi letteralmente a sassate. 

Come riusciste a mettervi in salvo da quella situazione? 

Riuscimmo a trovare rifugio in una chiesa greca ortodossa che era nelle vicinanze. Il Pope ortodosso ci diede ospitalità per tutta la giornata ma, all’imbrunire, data la persistenza dello stato di agitazione e dei tumulti che attraversavano non solo la città di Bengasi ma anche il resto del Paese, decise di chiamare la polizia affinché potesse accompagnarci al sicuro a casa. La polizia arrivò e ci scortò, ma anziché portarci a casa ci condusse in una caserma addetta ai giovani ufficiali, dove erano concentrati tutti gli ebrei e là mi ricongiunsi con la mia famiglia. Rimanemmo rinchiusi in caserma per circa un mese. Nel frattempo, venne organizzato un pullman che una volta al giorno scortava cinque-dieci famiglie per accompagnarle a casa per prendere vestiti necessari per cambiarsi. Di solito andavo io con mia zia e quella fu l’ultima volta che vidi la mia casa.
Dopo un mese, il Presidente della Comunità ebraica ci informò che era stato emanato un ordine dal Governo libico che raccomandava di partire verso l’Italia. Mandare via gli ebrei – dalla prospettiva del re Idris e degli uomini a lui vicini – era una forma di protezione e un gesto di benevolenza perché non avrebbero avuto la forza di proteggerli. Tutti quanti sapevamo di non poter tornare. Solamente pochissimi ebrei rimasero nel Paese. 

E così tutta la famiglia Zarrugh arrivò in Italia…

Arrivammo a Roma a fine giugno, dei pullman ci portarono al campo profughi di Capua, e lì trascorremmo solamente tre-quattro giorni, alcune famiglie vissero là anche un anno e mezzo. Il nostro desiderio era di costruirci una nuova vita a Roma in quanto la mia famiglia era molto osservante, ma all’epoca non trovammo un alloggio per la mia numerosa famiglia. Fu così che un ex socio di mio fratello, anch’egli libico, ci raccomandò di venire a Livorno, cittadina di mare come Bengasi, con una bella Comunità. Investimmo i nostri risparmi (che avevamo trasferito all’estero prima dello scoppio delle violenze del 5 giugno) nel commercio di profumi e aprimmo quattro profumerie nella città. Essendo una famiglia osservante, io e i miei fratelli e sorelle abbiamo profuso molte energie nella vita di comunità. Fino al 1985-86 abbiamo vissuto in una condizione di “apolidia”, non avevamo né il passaporto libico né quello italiano. Ogni volta che per lavoro o per motivi personali dovevo recarmi in Francia o in un altro Paese europeo o extra-europeo, ero costretto a rivolgermi al Consolato a Firenze e richiedere il permesso di soggiorno. Ciò ha chiaramente limitato la mia mobilità personale per circa vent’anni. 

Hai mai pensato o desiderato tornare nella tua città, Bengasi?

Non sono più tornato e neppure ho desiderato tornare perché sapevamo già, in realtà, che prima o poi avremmo dovuto lasciare il nostro Paese, come del resto era già accaduto agli altri ebrei che vivevano nei Paesi arabi del Mediterraneo ma anche del Medio Oriente. Nei mesi precedenti lo scoppio della Guerra dei sei giorni tra Egitto e Israele, ascoltavamo la radio araba che in continuazione trasmetteva i discorsi interminabili e trascinatori del presidente egiziano Nasser e, purtroppo, era evidente la direzione buia verso cui il nostro Paese stava andando. Ebbi occasione di tornare in Libia nel 2004; all’epoca Gheddafi invitò una delegazione di ebrei italiani per discutere di risarcimento; io andai perché conosco bene la lingua araba, la cultura araba, perché sono cresciuto in mezzo agli arabi, perché so leggere tra le righe del non detto le dinamiche delle interazioni sociali. Ovviamente, l’incontro non portò ad alcun esito preannunciato. 

Che impressione ti ha fatto rivedere il tuo Paese, la Libia?

Come se non fosse più il mio Paese: mi sento ancora molto attaccato alle mie tradizioni che sono anche tradizioni arabe; la lingua araba è la mia madrelingua. Tuttavia, lo percepisco come il Paese in cui sono nato e vissuto, non più come il mio Paese. La cosa che più addolora è la cancellazione della memoria millenaria della presenza ebraica a cui abbiamo assistito in Libia, come negli altri Paesi da cui gli ebrei sono fuggiti. La distruzione fisica dei cimiteri, delle scuole, delle biblioteche e delle sinagoghe – o la loro trasformazione in moschee – è stata determinata dalla volontà di rimuovere radicalmente dalla storia libica ogni traccia della millenaria civiltà ebraica. 


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