Pasqua, festa tesa tra liberazione e libertà

Dani Karavan, Copertina del Bollettino del Kibbutz Harel, 1954. Linolegrafia. Collezione Dani Karavan, Tel Aviv (su gentile concessione dell’Archivio e della famiglia di Dani Karavan).

Pasqua è la “Festa della Liberazione”una ricorrenza significativa per un popolo che ha inseguito per secoli il sogno della propria autodeterminazione. La lunga attesa ha avuto scatti di speranza reagendo ad ondate di persecuzioni; è accaduto nelle Crociate, mentre il più acceso sentore dell’avvicinarsi della Gh’eullà, della redenzione, ha generato la ventata risorgimentale europea e del movimento sionista.
Con la costituzione dello Stato ebraico si è consolidata la percezione del compimento di quella aspirazione. Lo Stato d’Israele, per la maggioranza degli ebrei, è considerato אתחלתא דגאולה, inizio della redenzione, non solo per i residenti ma per l’intera nazione sparsa nel mondo. Il connubio della nascita dello Stato con l’inizio della Ghe’ullà ראשית צמיחת גאולתנו (primo germoglio della nostra redenzione) compare per la prima volta nella Preghiera per la pace dello Stato, composta, pare, dal primo grande rabbino ashkenazita dello Stato, Yitzhak HaLevi Herzog, nonno dell’attuale Presidente. Salvo una minoranza dei charedim, ancora in attesa di un gesto messianico, la maggioranza del mondo ebraico considera acquisita, ovunque viva, la propria libertà per emanazione dello Stato d’Israele.
Alla iconografia e narrativa di Pesach, centrata sul racconto dell’Esodo, viene associata, dal ’48, l’indipendenza dello Stato, accomunando i due momenti “eroici” di libertà. Come spesso succede nell’esaltazione di grandi eventi, quelli meno eclatanti che li hanno preceduti vengono adombrati nella fattispecie: i lavori forzati, la schiavitù in Egitto o lo sterminio nella Shoà, ancor più in quanto sicuramente è stata tra i fattori determinanti per la formazione dello Stato.
Un importante insegnamento ebraico relativo alla Pasqua è il dovere di trasmettere alle future generazioni la memoria collettiva in cui un popolo affonda perpetuamente le proprie radici. A Pasqua, perciò, si ricorda che la salvezza è riparazione alla oppressione, alla negazione dei diritti delle persone. Le esperienze di sopraffazione vissute allora dal popolo d’Israele sarebbero dovute rimanere un forte riferimento, un imprinting per non ritrovarsi più in simili congiunture e desistere davanti a stati di esaltazione, come ad esempio è accaduto in seguito alla Guerra dei sei giorni, una volta “graziati” e guadagnata la propria vittoria. Conservare memoria per non disattendere l’insegnamento proveniente dalla propria eredità di persone e popolo, ed essere capaci di non elaborare tutto come giustificazione per dominare gli altri.
Una completa libertà non può affermarsi se fondata sulla sua negazione al prossimo, neanche se limitata nei modi o nel tempo.
Scrive il rabbino dottor Dror Pixler, della associazione Tzohar: «Si scopre che la “Festa della Libertà” – cioè la Pasqua – è la festa della famiglia, si fonda su una mitzwà (il precetto) «והגדת לבנך  – e racconterai a tuo figlio» dando ai genitori l’occasione di insegnare ai figli come elaborare la propria personale libertà, sia in ambito privato che pubblico». L’insegnamento ha come riferimento, oltre al timore di Dio, il sistema di relazioni interpersonali in coerenza con il rispetto dei diritti universali dell’uomo.
Un formidabile equilibro sul quale si fonda, nel mondo ebraico, il rapporto tra persone e società, è stato, nella Storia, posto in subbuglio, spesso, da influssi messianici; cito l’ascesa di Shabbetay Tzevì, seguita dal vuoto identitario una volta smascherato. L’esaltazione messianica condiziona l’individuo, lo “libera” dall’obbligo, lo “assolve” da responsabilizzazione personale indispensabilmente ceduta ad un mediatore, un leader spirituale. Nel mondo dei chasidim è un Admor אדמו״ר (acronimo di Adonenu Morenu We-Rabbenu – nostro Signore, nostro Maestro e nostro Rabbino, abbreviazione Rabbino) colui che detiene il sapere ideologico. È connaturato in una società chiusa di adepti che la dipendenza e lo spirito di appartenenza convivano, inducendo a “marcarsi”, sia nell’abbigliamento, la pettinatura o il modo di interloquire. Sottolineano la propria identità nella fedeltà, esternando zelo e devozione; la parola chiave utilizzata in quegli ambiti è lehitchazzeq להתחזק (fortificarsi, attaccamento interno). Con questo giustificano azioni altrimenti inibite; di conseguenza il gruppo pretende di imporre sugli altri la propria etica e i propri principi come imperativi di emanazione superiore!
Anche quest’anno il mondo ebraico festeggerà la “Festa della Liberazione”e anche noi, che viviamo fuori da Israele, guarderemo con affetto a uno Stato che sentiamo nostro, luogo di affezione anche se, da tempo, vive in una sorta di libertà condizionata, compromessa da chi l’ha trascinato ad un bivio sulla questione etica e morale, considerando la risoluzione della questione palestinese un problema estraneo, ignaro che la miopia di questo approccio graverà sulla credibilità propria e della nazione, in quanto כל ישראל ערבים זה לזה (tutto Israele garantisce uno per l’altro). 
Una esemplificazione è la vicenda di Homesh, un insediamento in Samaria, fondato nel 1978, smantellato e rifondato ripetutamente per eclatanti vizi amministrativi, legali e soprattutto di opportunità. Il luogo è stato per ultimo occupato dai חרד”לים  (acronimo al plurale di חרדי לאומי Charedì Le’umì, letteralmente “Religioso Nazionalista”, plurale Chardalim, un segmento della popolazione che vive e condivide una vita regolata da una rigorosa osservanza religiosa associata ad uno spiccato sciovinismo) con la complicità di una parte del mondo politico. Come proprio avamposto è stata istituita una yeshivà (scuola rabbinica). In assenza di qualsiasi legittimazione, provocano continuamente vari casus belli con la locale popolazione palestinese, i proprietari dei terreni; con prepotenza, sfidano l’esercito e lo Stato. La loro strategia si fonda sulla presunzione di possedere un sacrosanto diritto evidentemente da loro negato ad altri, una asimmetria viziata da ideologia e giustizia di parte, disattendendo sia i principi ebraici che i diritti universali dell’uomo.

La condivisione di una ideologia appassiona le persone di un gruppo rendendole però vulnerabili al fascino del confronto: si esaltano difendendo le proprie cause, ribadendo fedeltà reciproca, esternando le proprie convinzioni. La contesa autoreferenziale intrapresa a Homesh, Izhar, dai “ragazzi delle colline” e da diversi altri insediamenti che vengono denominati “giovane insediamento” (per acquisire parvenza di correttezza politica ma, di fatto, di costituzione illegittima) ha molte connotazioni di guerra santa: una cultura apologetica fondata sul binomio di valori ebraici e nazionalistici che sempre più fa presa anche nella stessa Israele.
Si è recentemente verificata al Museo di arte israeliana di Ramat Gan una alzata di scudi su un’opera dell’artista David Riv dal titolo, intenzionalmente di rude provocazione, Gerusalemme d’oro / Gerusalemme di merda. Il titolo riprende una scritta che appare a corredo di una duplice foto di un religioso in preghiera al Kotel. Gerusalemme d’oro è il titolo della canzone-tormentone che ha accompagnato la Guerra dei sei giorni, parole rimaste associate alla conquista/liberazione del 1967 del Muro del Pianto. Riv denuncia uno stato di “Pace sospesa” da oltre cinquant’anni a causa della commistione tra religione e patriottismo esasperati. Il gesto artistico, volutamente privo di attenzioni estetiche, ha centrato lo scopo di scatenare una disputa tra chi lo considera un sacrilegio e chi apprezza la capacità dell’opera di denunciare le conseguenze di atteggiamenti che tramano contro lo Stato laico e i diritti dell’uomo. Ai contendenti sfugge che, nella contesa, venga declinato il concetto della libertà e giustizia in modo fazioso: ciascuna delle parti pretende ragione senza concedere nulla alla controparte! L’opera è stata tolta dalla mostra da un sindaco che ha agito a dispetto di una ordinanza del tribunale che lo impediva. Il fatto eclatante ha avuto una immediata ricaduta non solo sulla notorietà dell’artista e dell’opera ma anche sul sindaco che ha colto un plauso politico, anche se dai soli suoi elettori. Lo stesso giudice, in seguito, ha circoscritto la questione ad aspetti strettamente procedurali, burocratici, mettendo in risalto che l’unica a rimanere umiliata è stata proprio la “libertà”, da tutti reclamata invano!
Lo status quo tra Stato laico e religione, accordato da Ben Gurion nel primo ordinamento costituente, mirava a sostenere coesione, in una situazione transitoria, condizionata dalla straordinaria immigrazione per i postumi della Shoà, momento nel quale era necessario comporre una identità condivisa. Una soluzione concessa come transitoria si è prolungata oltre tempo, consentendo una latente evoluzione in direzione opposta da quella immaginata dai padri fondatori della patria. Lo Stato costituito per supplire ai mali della mancata libertà del popolo, a causa di una commistione tra fede e sciovinismo, ha generato una promiscuità favorita dal misticismo che sta rosicchiando le sue stesse fondamenta. Una ideologia concepita e determinata nei territori della Cisgiordania sta oltrepassando la “linea verde”, superando i confini tra Israele e i Territori nonostante siano segnati da un solo apparente, invalicabile muro.
Spesso viene riportata, in merito agli insediamenti nella Cisgiordania, una nota risposta di Simone Asmoneo (statista e Sommo sacerdote dal 143 al 135 a.e.v.) ad Atenobio, emissario di Antioco VII che rivendicava pretese territoriali: «Non abbiamo», disse Simone «occupato terra straniera né ci siamo impossessati di beni altrui ma dell’eredità dei nostri padri, che fu posseduta dai nostri nemici senza alcun diritto nel tempo passato» (1Maccabei 15, 32-34).
Simone, dimostrando una straordinaria capacità strategica, rinnovava l’alleanza con Roma, di cui lo storico Zvi Gretz scrisse: «una visione azzardata, in quanto la stessa mano che piantava l’albero della libertà ha anche introdotto in esso il verme che rosicchiava la bellezza dei suoi fiori». Infatti, quella alleanza, che pareva opportuna e che sembrava di ausilio per il nuovo regno contro i suoi nemici esterni, ha invece maturato inevitabilmente i frutti della futura distruzione!
Le citazioni bibliche, come la risposta di Simone ad Atenobio, quando richiamate dalla retorica politica o dalle guide religiose, si deve solo sperare che siano espresse come parabola a scopo esortativo, sia per chi le pronuncia sia, e ancor più, per chi le ascolta, e che non si perda consapevolezza di quanto siano prive di concretezze riferibili ad attestati di proprietà o diritti acquisiti. Comunque sia, l’uso degli stessi richiami costituisce un grave incitamento al sovranismo cavalcando la religione ma scavalcando la ragionevolezza.
Nel caso dei Territori della Cisgiordania è un atteggiamento con cui, maliziosamente, si legittimano abusi, a dispetto del rispetto dei diritti dell’uomo e dei fondamenti della stessa etica ebraica.
Attenti! Additando il concetto etico di libertà senza contraddittorio e senza considerare l’esistenza di una morale universale, si sta rosicando la consolidata etica dell’esercito, lo Tzahal (significativo in merito è il caso di Elor Azaria, il soldato che sparò a un palestinese ferito a Hebron), dell’ordinamento civile (la legge Stato-nazione, la latente separazione tra i generi), intromettendosi nella vita quotidiana di molti di noi, come avviene con il controllo e la definizione della kasherut, di “chi è ebreo”, o della Legge del ritorno (חוק השבות), ordinamenti giudiziari che rischiano di compromettere – e in alcuni casi hanno già compromesso – il concetto della libertà, condizionandola con inevitabili ripercussioni anche sulla vita ebraica fuori da Israele; un condizionamento che per un ebraismo razionale, responsabile e consapevole, come tradizionalmente è stato l’ebraismo italiano, si configura come un iceberg sul quale sta per collidere se non già si è schiantato.

חג חרות כשר ושמח  

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