La Lezione di Omar

Foto: Haaretz

Alle 3 di una notte di metà gennaio Omar Abdalmajeed As’ad viene fermato da soldati israeliani a un posto di blocco estemporaneo presso Jiljilya, un villaggio poco a nord di Ramallah nella zona A nei Territori occupati (alcuni lo identificano con la biblica Gilgal). Dopo un quarto d’ora di discussioni, giacché si rifiuta di uscire dal veicolo, viene tirato fuori e portato in un cortile abbandonato, dove viene ammanettato, imbavagliato e bendato. Dopo un altro quarto d’ora i soldati portano nel cortile altre due persone fermate; uno di loro nota che Omar giace prono, immobile. Altri due fermati vengono portati là poco dopo, ma l’unico ammanettato rimane Omar. Alle 4 gli viene infine liberata una mano, e i soldati se ne vanno. Alle 4:09 uno degli altri fermati, vedendo che Omar non si muove e che la sua faccia tende al blu, riesce a chiamare un dottore, che arriva alle 4:10 e prova a rianimarlo. Alle 4:20 viene portato nell’ambulatorio, che non è distante, dove continuano i tentativi di tenerlo in vita, ma alle 4:40 viene dichiarato deceduto. Infarto.
Una storia di ordinaria occupazione, come ne accadono quasi ogni settimana al di sotto dei radar di un’opinione pubblica distratta e spesso annoiata. Secondo B’Tselem, nel 2021 sono stati 41 i palestinesi uccisi dalle forze di sicurezza israeliane in circostanze che non mettevano in alcun pericolo israeliani (circa la metà di quelli uccisi nella West Bank, per gli altri non si può escludere che potessero essere pericolosi; mentre 236 sono stati uccisi a Gaza, quasi tutti a maggio nell’operazione Guardiani delle Mura durante la quale sono stati anche uccisi, da razzi sparati da Gaza, 6 civili israeliani e 3 lavoratori stranieri). Alcune particolarità hanno però contribuito a dare risalto alla tragica fine di Omar. La prima è che aveva 78 anni. Anche chi è più convinto della legittimità di ogni misura volta a contrastare il terrorismo palestinese può essere rimasto perplesso di fronte alla necessità di ammanettare, imbavagliare e bendare un uomo di 78 anni. I comandi dell’esercito si sono visti costretti a promuovere un’inchiesta interna, che ha concluso che si sia trattato di una «grave incapacità di valutazione» da parte dei soldati, che hanno violato il codice etico dell’esercito. Il comandante del plotone e quello della compagnia verranno rimossi. La seconda particolarità è che Omar era cittadino USA, avendo vissuto una quarantina d’anni a Milwaukee, prima di fare ritorno al suo villaggio natale. Questo ha costretto anche gli Stati Uniti, dal segretario di Stato Blinken all’ambasciatore Nides, a chiedere chiarimenti agli amici israeliani. Il capo di stato maggiore Kochavi ha potuto riferire all’Ambasciatore le inequivocabili conclusioni dell’inchiesta interna, affermando peraltro che altri eventuali provvedimenti dovranno attendere le conclusioni di un’inchiesta parallela della polizia militare.
Qui entra in giuoco la terza particolarità, punta di un iceberg di imbarazzo per l’esercito israeliano: i soldati responsabili dell’operazione appartengono al battaglione Netzah Yehuda. Il battaglione, che un tempo si chiamava Nahal Haredi, è un’unità pensata per favorire l’integrazione nell’esercito di giovani (uomini) ultraortodossi, le cui regole halakhiche sono rispettate integralmente. Viene impiegato prevalentemente in compiti di sorveglianza e polizia nella zona di Ramallah. È una testimonianza concreta dell’impegno dell’esercito a dimostrare che, se gli ultraortodossi vogliono davvero mettere a tacere le critiche di quanti li rimproverano di scansare il servizio militare e accettano di arruolarsi, possono avere assolutamente tutte le garanzie di cui la loro sensibilità ebraica necessita. La realtà è che l’esercito di quel battaglione non sa che farsene. Nonostante le dichiarazioni del Capo di stato maggiore, che utopisticamente auspicherebbero il contrario, sono anni che 

le migliori reclute dell’esercito ambiscono a entrare non nelle unità combattenti ma in quelle impegnate nello sviluppo tecnologico, in particolare la famosa 8200, i cui veterani hanno poi facile accesso a stipendi da favola nell’hi-tech. Gli ultraortodossi sono in larga misura inadatti per questi impieghi. Del resto, di combattenti veri e propri l’esercito ha sempre meno bisogno, in una fase storica in cui i conflitti vengono gestiti dall’aviazione e ancora di più dalle tecnologie cyber, mentre quella che un tempo era la fanteria serve sostanzialmente solo per mantenere una presenza costante nei Territori Occupati. E per tenere impegnati giovani che altrimenti sarebbero in gran parte disadattati, comunque a spese dello Stato e riserva di caccia per estremisti ed agitatori di ogni tipo. Una specie di gigantesco servizio sociale, di cui l’esercito preferisce si parli il meno possibile. Si cerca di gonfiare il numero di ultraortodossi che vengono effettivamente arruolati, e di tacere del loro utilizzo. Quelli che vengono arruolati sono in genere quelli che non sono riusciti a inserirsi nei percorsi di studio considerati attraenti dalla società ultraortodossa, e a volte hanno un passato di violenze e soprusi sulla popolazione palestinese, come quello dei cosiddetti “giovani delle colline”. Secondo Amos Harel, commentatore di affari militari di Haaretz, Netzah Yehuda passa 9-10 mesi l’anno nei Territori, dopo un addestramento minimo; a fronte di altre unità di fanteria che invece passano metà del loro tempo in attività di addestramento. Il servizio nei Territori, poi, anche per coloro che rimangono indifferenti di fronte alle sofferenze dei locali, è di una noia mortale. In questo contesto, i giovani comandanti delle singole unità si sentono di dover organizzare spesso “attività”, come posti di blocco estemporanei, perquisizioni, rastrellamenti, che verrebbero definiti come un’articolata strategia intimidatoria se fossero davvero pianificati dall’alto. L’“elefante nella stanza”, a parere di Harel, è che spesso sono invece iniziative degli ufficiali inferiori, antidoti al vuoto di un’occupazione senza senso sostenuta da giovani la cui vita non ha trovato un senso neanche lei.
Cosa ne sarà dell’attuale gioventù charedì? Gli scandali susseguitisi ad un ritmo crescente, da quello di rav Moti Elon del 2013 a quello di Yehuda Meshi-Zahav, tuttora in coma dopo il tentato suicidio, da quello di rav Chaim Walder, suicidatosi con successo il 27 dicembre, a quello di rabbi Eliezer Berland, sospettato anche di concorso in due omicidi, hanno fatto emergere l’entità del fenomeno della pedofilia da parte di chi abusa del proprio carisma religioso – c’è chi ha affermato che più della metà dei bambini di Bnei Brak sarebbero vittime di violenza, senza considerare le donne, adulte ma in condizioni di effettiva soggezione. È improbabile la sopravvivenza delle strutture sociali tradizionali, che del resto tendiamo a mitizzare come risalenti all’Europa dell’Est, ma sono in gran parte il prodotto dell’adattamento recente alla realtà israeliana e ai suoi sussidi di Stato, in origine intesi per una popolazione charedì che era una piccolissima frazione del milione e due attuale. La media dei figli per donna, che era di circa 3 prima della nascita dello Stato, è poi cresciuta fino a stabilizzarsi intorno ai 7, e non accenna a diminuire. Certo, una parte abbandona lo stile di vita charedì, una parte forse stimabile al momento intorno al 15%. Secondo Meirav Arlosoroff, a meno di future crescite drammatiche di questa percentuale, gli abbandoni si traducono in una “fertilità effettiva” della comunità di 6 figli per donna invece di 7, che non cambia il quadro di fondo. Del resto, l’inadeguatezza dell’educazione ricevuta rende comunque difficile a molti giovani charedì l’ingresso nel mondo del lavoro.
Chissà se gli storici annovereranno un giorno fra i traguardi raggiunti dallo Stato d’Israele la creazione di questa massa di disadattati di un tipo assolutamente nuovo. Quello che è certo è che per quelli come Omar, che son voluti tornare al villaggio natìo, le prospettive rimangono cupe. 

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