Elia Benamozegh

Elia Benamozegh (fonte Wikipedia.org)

Elia Benamozegh (1823-1900) fu certamente un teologo brillante e originale, che fu capace di sintetizzare il suo sapere cabbalistico in una proposta religiosa universale rivolta all’Europa del suo tempo. Ma fu anche un erudito dalle conoscenze amplissime, un orientalista sui generis che partecipò alle ricerche storiche, filologiche, linguistiche che conoscevano un grande sviluppo nella seconda metà dell’800. 

Questa erudizione è particolarmente visibile nel suo Em la-Miqrà, definito generalmente come commento alla Torà ma che in verità costituisce una serie di osservazioni erudite suscitate da particolari versetti del Pentateuco e, in certi casi, da una sola parola. Ed è in effetti così che recita il frontespizio ebraico:

Torà divina con le cinque Meghillot e le Haftarot, a cui si aggiunge Em la-Miqrà, comprendente note, ricerche, nuove spiegazioni secondo la filologia, la critica, l’archeologia e la storia di Babilonia, Assiria, Egitto ed altri Paesi e secondo le religioni e gli usi dei popoli antichi. [Contiene inoltre] giudizi su diverse opinioni e ipotesi dei ricercatori contemporanei e uno sguardo attento a midrashim dei nostri Maestri e della loro tradizione, sia talmudica sia divina (cioè cabbalistica), dovunque conduca lo spirito dello scritto.

Sono ben conosciute le conseguenze del malinteso sulla definizione di commento tradizionale, come la grafica dei cinque volumi editi dallo stesso Benamozegh, che riportava il testo biblico con i segni di cantillazione (te‘amim) in sinagoga, e le sue osservazioni in caratteri cosiddetti “Rashi” potevano far pensare. I rabbini di Aleppo e quelli di Gerusalemme condannarono il testo come eretico, i primi addirittura al rogo.

Al di là di questo episodio probabilmente traumatico per Benamozegh, che era allo stesso tempo totalmente ortodosso e tradizionalista e appassionatamente “moderno”, si nota come la biblioteca di Benamozegh contenesse una grande quantità di autori, letti in lingua originale o in traduzione. Nelle sole prime ottanta pagine di Em la-Miqra, per fare un esempio, sono citati e discussi quarantacinque testi o autori legati alla tradizione ebraica di tutte le epoche e ottantadue non legati a questa tradizione: storici greci e latini, Padri della Chiesa, critici moderni dal ’600 ai suoi giorni. 

Va detto che questa vastissima erudizione è messa al servizio di un’idea che attraversa tutta l’opera: le aggadot rabbiniche costituiscono una testimonianza preziosa per la comprensione di culture antiche, anche quando hanno la semplice apparenza di aneddoti che, se non inseriti in un contesto storico, appaiono incomprensibili. Questo è vero non solo per i midrashim ma anche per le dottrine cabbalistiche, che Benamozegh legge alla luce di dottrine soprattutto, ma non solamente, egizie.

In verità Benamozegh compie un passo ulteriore: i rabbini non sono solo dei testimoni attendibili e preziosi; essi dimostrano anche come molte idee dell’antichità trovino la loro fonte nella Bibbia, che ha costituito una specie di base comune per diverse culture.

Benamozegh realizza quindi una forma inedita di “concordismo” biblico: la Bibbia non solo è d’accordo con scienze come la fisica ma anche con la filologia, la storia, la linguistica comparata. E solo i recenti progressi di queste discipline permettono di considerare i testi ebraici tradizionali nella loro dimensione più autentica.

È ovvio che si può rimproverare all’autore livornese un atteggiamento apologetico, lontano dall’oggettività ricercata dalla ricerca scientifica. E in effetti gli orientalisti del suo tempo, compresi quelli italiani, non consideravano i suoi lavori come “scientifici”. C’è da chiedersi però in quale misura queste ricerche fossero oggettive, se non fossero guidate dall’idea implicita (e qualche volta esplicitata) dell’Occidente, erede del cristianesimo, come realizzazione della storia dell’umanità.

Le «note, ricerche, nuove spiegazioni secondo la filologia, la critica, l’archeologia e la storia» di Benamozegh meritano quindi molto di più di uno sguardo ammirativo ma tutto sommato accondiscendente; la loro “inattualità” non è da ascriversi a un filosofo convinto della verità ebraica ma che non segue i metodi abituali della scienza, ma può essere vista come un invito a uno sguardo diverso, probabilmente fecondo, su testi e culture diverse.

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