Ostjuden di Primo Levi (7 febbraio 1946)

Primo Levi, 1979 (Fonte Wikipedia.org).

Nei testi pubblicati in vari tempi e modi da Levi, la prima occorrenza di “ebreo” risulta Ostjuden, “ebrei orientali” in tedesco, titolo di una poesia da lui datata 7 febbraio 1946 e inclusa nelle sue raccolte poetiche L’osteria di Brema (Scheiwiller, Milano 1975) e Ad ora incerta (Garzanti, Milano 1984). A essa fanno pendant, ma subito messi a stampa, il “Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria del campo di concentramento per Ebrei di Monowitz (Auschwitz-Alta Slesia)”, pubblicato da Leonardo De Benedetti e Primo Levi sulla rivista Minerva Medica (XXXVII, n. 47, 24 novembre 1946, pp. 535-544) e l’inizio di Se questo è un uomo nella prima edizione presso de Silva, Torino 1947: «Alla metà del febbraio ’44, gli ebrei italiani nel campo di Fossoli […]».
Ostjuden non ha sempre destato l’attenzione degli studiosi del Levi poeta, mentre i critici più attenti alla dimensione ebraica la legano al fatto che gli ebrei dell’Est Europa sono stati «sterminati sin quasi all’ultimo» (G. Lopez, “Primo Levi: l’opera. Gli avvenimenti, l’umanità”, La Rassegna Mensile di Israel, LV, 2-3, 1989, p. 225) o «hanno subito i pogrom, e […] ora vanno alla morte docili come gregge di agnelli» (G. Pangaro, in https://www.studiumbri.it/letture/la-poesia-necessaria-primo-levi). Lo stretto legame tra la parola Ostjuden e la Shoà è, come tristemente sappiamo, nelle cose. Il termine si afferma dal tardo XIX secolo, con le migrazioni di ebrei dall’Europa orientale a quella occidentale, e viene presto associato allo stereotipo negativo dell’ebreo arretrato e chiuso nelle sue tradizioni premoderne. Nella Germania nazista diviene cruciale nel dibattito sulla  “questione ebraica”, la cui “soluzione finale” (Endlösung der Judenfrage) mira anzitutto ad annientare i milioni di Ostjuden inclusi nel Reich o nei territori controllati dai tedeschi dopo l’occupazione della Polonia (1939) e l’invasione dell’Unione Sovietica (1941). Levi in effetti farà sue le parole di Itzhak Katzenelson «il sole, levandosi sulle terre di Lituania e di Polonia, non incontrerà mai più un Ebreo» (Il canto del popolo ebreo massacrato, Amici di Lohamei Haghettaoth, Torino 1966) e parlerà di “Un mondo cancellato da Hitler”(La Stampa, 6 ottobre 1978). Tuttavia la nota d’autore apposta nel 1984 alla poesia ha un tono volutamente neutro («Ostjuden. Nella Germania nazionalsocialista, era questa la denominazione ufficiale degli ebrei polacchi e russi», Ad ora incerta, p. 101) e nei versi la dimensione dello sterminio non emerge, mentre si sottolinea che gli Ostjuden possono essere «ritrovati per ogni dove», come mostra il testo:

Ostjuden
Padri nostri di questa terra,  
Mercanti di molteplice ingegno,
Savi arguti dalla molta prole 
Che Dio seminò per il mondo
Come nei solchi Ulisse folle il sale: 
Vi ho ritrovati per ogni dove, 
Molti come la rena del mare,
Voi popolo di altera cervice,
Tenace povero seme umano.

L’intreccio di elementi biblici, classici e danteschi è paragonabile a quello della poesia posta in epigrafe a Se questo è un uomo e più tardi intitolata Shemà. Invece che alla preghiera ebraica e al Deuteronomio o Devarim, Ostjuden nel suo inizio rinvia all’evangelico Padre nostro (che ripete comunque l’ebraico מלכנו אבינו Avinu Malkenu “Padre nostro, Re nostro”), col plurale invece del singolare e «questa terra» invece dei «cieli». Poco più avanti, però, giunge l’allusione alla benedizione divina ricevuta da Abramo dopo l’offerta del figlio Isacco (Genesi 22,17): «renderò numerosa la tua discendenza» [>«dalla molta prole»], «come la sabbia che è sulla riva del mare» [> «come la rena del mare»].

Agli elementi biblici si uniscono quelli classici e danteschi. Poco prima della stesura del capitolo di Se questo è un uomo dal titolo “Il canto di Ulisse” (datato in un dattiloscritto 14 febbraio 1946), agli ebrei orientali Levi assegna l’epiteto «di ingegno molteplice», con cui Ettore Romagnoli aveva tradotto l’omerico πολύτροπον, polytropon. I «savi arguti» tornano a proposito della “Storia di Tewje il lattivendolo” di Shalom Aleichem, inserita nell’antologia leviana La ricerca delle radici (Einaudi, Torino 1981) e il cui protagonista, nella presentazione dei brani prescelti, è appunto definito «il loico indomito, il savio arguto». Gli Ostjuden come ulissidi ricompaiono in una nota a “Il canto di Ulisse” nell’edizione scolastica di Se questo è un uomo (Einaudi, Torino 1973, p. 152): «fra le varie radici dell’antisemitismo tedesco, e quindi del Lager, c’era l’odio e il timore per “l’acutezza” intellettuale dell’ebraismo europeo, che i due giovani [Primo e il compagno di prigionia Jean Samuel] sentono simile a quella dei compagni di Ulisse».
Ma ecco che i “savi” cedono il passo al loro opposto, l’ “Ulisse folle” della tradizione post-omerica che, fingendosi pazzo per sottrarsi alla guerra di Troia, aggiogò all’aratro un cavallo e un bue, calzò un cappello clownesco e seminò nei solchi il sale, come narrano Servio nel commento all’Eneide, Igino nelle Fabulae e altri. Sembra la figura del בטלן batlen, folle e buffone del mondo yiddish, ma l’endecasillabo «Come nei solchi Ulisse folle il sale» rimanda anche al «folle volo» (Inferno XXVI 125) e al «varco / folle d’Ulisse» (Paradiso XXVII 82-83). Allo stesso tempo questi versi possono evocare Matteo 5,13, «Ὺμεῖς ἐστε τὸ ἅλας τῆς γῆς – voi siete il sale della terra», che Levi rileggerà in chiave di resistenza antifascista nel capitolo “Zinco” di Il sistema periodico (1975): «ci vuole il dissenso, il diverso, il grano di sale e il chicco di senape: il fascismo non li vuole».
Infine «popolo di altera cervice» nega lo stereotipo dell’ebreo che china la testa e accetta passivamente un destino di persecuzione e sterminio (associato da qualche critico proprio a Ostjuden). Nel Dizionario della lingua italiana di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini (UTET, Torino 1861-1879) il lemma “cervice” è chiuso dall’esempio «uomini d’indomita cervice» (con richiamo a Orazio, Epistole I III 34) ed è aperto dal dantesco «che la cervice mia superba doma». Questa unica attestazione di «cervice» nel poema di Dante compare al v. 53 del c. XI del Purgatorio, aperto proprio da «O Padre nostro, che ne’ cieli stai», e riecheggia i luoghi biblici ove Israele è apostrofato come «populus durae cervicis» (nell’originale עם קשה ערף, ‘am qashé ‘oref: Esodo 32,9, Esodo 33,3, Deuteronomio 9,13, Isaia 48,4 ecc.), indice allora di ostinazione e superbia ma nell’oggi di Levi, invece, di resilienza, come conferma l’epiteto «indomito» attribuito a Tewje il lattivendolo.
La giusta chiave di lettura della poesia è indicata da Levi nell’“Itinerario d’uno scrittore ebreo”, relazione al Convegno di letteratura ebraica della Rockefeller Foundation (Bellagio, 29 novembre-3 dicembre 1982), pubblicata su La Rassegna Mensile di Israel, L, 1984, pp. 376-390. Il «viaggio di rimpatrio» gli fa riconsiderare in tutti i suoi «chiaroscuri» l’«idea distorta […] e soprattutto schematica» che si era fatta in Lager, secondo la quale «c’erano milioni di ebrei in Russia e in Polonia, e i nazisti li avevano mandati nei Lager e sterminati»:

i paesi che percorrevo erano molto diversi dall’Italia, desolati e selvaggi, primitivi e violenti. L’ostilità contro gli ebrei precedeva di molto l’invasione tedesca, era endemica, costante; gli ebrei vivevano da secoli in una condizione di separazione, anche linguistica. Nella nostra peregrinazione in Ucraina, poi in Russia Bianca, avevamo incontrato militari ebrei dell’Armata Rossa; giovani che avevano militato fra i partigiani; famiglie che erano sfuggite agli Einsatzkommandos rifugiandosi in zone lontane, e che ora tornavano ai loro paesi con mezzi di fortuna; villaggi sperduti in mezzo ai boschi, che avevano ospitato fiorenti Yeshivòth ora distrutte; brandelli insomma di un mondo ebraico esploso, ferito a morte, ed ora alla ricerca di un nuovo equilibrio. Ne ho ricavato qualche anno dopo una breve poesia, che riporto qui: Padri nostri di questa terra […].

In Ostjuden si respira dunque il clima di La tregua (1963): dopo la guerra e lo sterminio, come dopo il diluvio universale, il mondo sembra rinascere con lo spirare, si legge all’inizio del capitolo “Il greco”, di un «vento alto […] sulla faccia della terra» (הארץעלרוח, ruach ‘al ha-aretz, Genesi 8,1). Ricordiamo però come inizia e come termina La tregua. La poesia posta in esergo, senza titolo, nelle raccolte del 1975 e del 1984 si chiama Alzarsi ed è datata 11 gennaio 1946, il giorno successivo a quello della poesia Shemà. Ai primi versi di questa, «Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate tornando a sera / Il cibo caldo e visi amici», Alzarsi risponde con «Ora abbiamo ritrovato la casa, / Il nostro ventre è sazio, / Abbiamo finito di raccontare», ma si conclude con «È tempo. Presto udremo ancora / Il comando straniero: / “Wstawać”»). Nelle righe finali del libro, il bel sogno dello scrivente, seduto «a tavola, con la famiglia, o con amici, o al lavoro, o in una campagna verde» si rovescia e «tutto cade e si disfa intorno a me, lo scenario, le pareti, le persone», mentre già si sente «risuonare una voce, ben nota; una sola parola […]. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawać”». L’atroce sterminio, ci dice Primo Levi, non è riuscito a cancellare il «tenace povero seme umano» degli Ostjuden ma dobbiamo ricordare, e meditare, שמע, «che questo è stato», perché se è stato può ripetersi, e il comando dell’alba in Auschwitz può riecheggiare, anche qui, da un momento all’altro.

(*)Questo articolo presenta, in forma alleggerita da dettagli e citazioni, parte di un più ampio lavoro destinato a Materia Giudaica, XXVII, 2022.

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