1.700 anni di vita ebraica in Germania

Sinagoga Maggiore di Francoforte sul Meno, distrutta nella Notte dei Cristalli (9 novembre 1938). Fotografia di Theodor H. Creifelds, 1853 (Fonte Wikipedia.org).


Dopo la Shoà parve che la vita ebraica sul suolo tedesco fosse stata definitivamente spenta nelle camere a gas di Auschwitz. Questa era anche l’opinione del Congresso mondiale ebraico che giudicava un ritorno nella terra «impregnata di sangue ebraico» impensabile e perfino immorale. Arthur Rubinstein, Jascha Heifetz, Isaak Stern e molti altri artisti ebrei non vollero più esibirsi in Germania. Mentre Yehudi Menuhin già nel 1946 diede una serie di concerti nelle città tedesche rase al suolo, proprio per confrontare – e confortare – la nazione con Bach e Beethoven. Fra gli ebrei ci fu anche chi non volle lasciare a Hitler l’ultima parola e tornò in patria, sostenuto dall’idea che ogni persona, ogni nazione si può ricredere, si può pentire, un concetto alla base dell’ottimismo e dell’umanesimo ebraico.
E così lo scorso anno (2021) nel Paese dei “carnefici” gli ebrei festeggiarono assieme alla popolazione tedesca 1.700 anni di vita ebraica in Germania. Ci furono manifestazioni in tutte le città e il presidente della Repubblica Frank-Walter Steinmaier dichiarò che « […] in filosofia, in letteratura, in pittura e musica, nella scienza, medicina ed economia gli ebrei scrissero la nostra storia e fecero risplendere la nostra cultura. L’ebraismo ebbe un ruolo determinante nell’entrata della Germania nel mondo moderno». 
La prima testimonianza di vita ebraica in Germania risale a un editto dell’imperatore Costantino del 321 d. C. nel quale si sollecitano gli ebrei di Colonia ad assumere cariche pubbliche. Ma in genere la vita degli ebrei in Germania fu segnata da persecuzioni, roghi di sinagoghe, cacciate, accuse infami e qualche breve parentesi di pace, pagata con altissimi tributi ai rispettivi regnanti. La cristianità fu sempre gravida di antigiudaismo. Per la Chiesa gli ebrei, erano dei perfidi fuorilegge che si rifiutavano ostinatamente di assumere la “vera” religione cristiana. Una delle stragi più sanguinose la fecero le orde della prima Crociata di Urbano II nel 1096; durante la loro marcia verso la Terra Santa massacrarono centinaia di ebrei, bruciarono le case e le sinagoghe degli “deicidi” e lasciarono una traccia di sangue che partiva dalla Germania del Nord, attraversava la valle del Reno e continuava dopo Ratisbona. Le stragi e le cacciate di ebrei si ripeterono per secoli. Nel 1543 Martin Lutero scrive che «le sinagoghe devono essere incendiate e quelle che non bruciano coperte di letame […] in onore di Dio»; e «qui c’è già tutto il programma del Terzo Reich», osservò quattrocento anni più tardi il filosofo Karl Jaspers. Tuttavia, siccome la Germania fino alla sua unità avvenuta nel 1870 era divisa in decine di Stati sovrani, non ci fu mai una cacciata degli ebrei dall’intero territorio tedesco, come avvenne ad esempio in Francia, in Spagna o in Inghilterra. Infatti, ebrei cacciati da un Stato tedesco trovavano sempre qualche altro Stato tedesco che li accettava. È il motivo per cui ritroviamo sempre ebrei in Germania per un periodo così lungo, dai tempi dei Romani fino alla Shoà. Nonostante questo, le frequenti e dure persecuzioni e le cacciate hanno incoraggiato l’emigrazione di ebrei dagli Stati tedeschi verso l’Ungheria e la Boemia, ma soprattutto verso la Polonia dove esistevano piccole comunità ebraiche probabilmente già nel XI secolo e dove lo statuto del duca Boleslav di Kalisz assicurava loro sicurezza fisica e delle proprietà fin dal 1264, diritti successivamente allargati anche in altri territori per assicurare alle comunità una certa autonomia. Sono stati questi ebrei tedeschi che parlavano yiddish, un dialetto tedesco con l’aggiunta di parole in ebraico, a far sì la loro lingua sia diventata poi la lingua parlata da tutti gli ebrei dell’Europa orientale.


Nel 1743 un ebreo quattordicenne malnutrito e scalzo entrò a Berlino e il doganiere della porta Rosenthal annotò: «Oggi sono passati sei buoi, sette maiali e un ebreo». Il ragazzo era Moses Mendelssohn (nonno del compositore Mendelssohn Bartholdy). Parlava solo yiddish ed ebraico. Una decina di altre lingue, tra cui greco, latino, tedesco, francese, inglese e italiano le imparò da autodidatta e divenne uno dei filosofi più brillanti dell’Illuminismo europeo, il “Socrate tedesco”, ammirato da Goethe e Herder, amico di Lessing.
Moses Meldelssohn ci appare come una specie di caposcuola di pensatori, artisti e scienziati ebrei che negli ultimi due secoli furono la linfa vitale della cultura tedesca. I nomi vanno da Marx a Freud, da Einstein a Schönberg, da Wittgenstein a Erich Fromm a Hannah Arendt e a dozzine di altri geni e fuoriclasse; troviamo ebrei fra i fondatori di partiti politici della sinistra, liberali e radicali e molto attivi negli ambienti della borghesia intellettuale, attenti a cercare una sintesi fra l’identità ebraica e quella tedesca. Prima della Shoà su 33 Premi Nobel di parlata tedesca ben 14, cioè quasi la metà, erano ebrei, però gli ebrei di Germania (allora circa 500 mila), rappresentavano solo lo 0,8 % della popolazione tedesca. Da qui si capisce che uccidendo ed esiliando i concittadini ebrei la Germania si suicidò. La cultura tedesca – scrisse Eric Hobsbawn – cessò d’essere cultura mondiale. Si ridusse a cultura regionale. E da questa perdita la Germania non s’è ancora completamente rimessa – come per secoli non si rimise la Spagna dalla cacciata degli ebrei nel 1492. Di passaggio, non è privo d’interesse chiedersi cosa sarebbe potuta divenire la Germania se non avesse eliminato nel secolo scorso il fior fiore della propria scienza e della propria cultura.
Tuttavia, fra tutte le nazioni belligeranti nella Seconda guerra mondiale la Germania è la sola ad avere avuto il coraggio di assumersi la responsabilità del male portato nel mondo. Il presidente della Repubblica Federale Tedesca Richard von Weizsäcker, nel famoso discorso del maggio 1985, lo riconobbe ufficialmente. Fu un grande passo avanti e un atto che purificò l’aria della nazione. Altre nazioni avrebbero avuto motivo per farlo. Ma non fiatarono.
Oggi la vita ebraica in Germania è parte integrante della società e gli ebrei si sentono a casa loro. Si costruiscono sinagoghe e scuole ebraiche e si celebrano in pubblico, sulle piazze, le festività ebraiche come Sukkot o Chanukkà. Nell’immediato dopoguerra gli ebrei in Germania si contavano sulle dita d’una mano. Oggi sono circa 100 mila. Molti arrivarono dall’Est dopo il crollo dell’Impero sovietico nel 1990 e nelle comunità ebraiche si sente oggi parlare russo e polacco e i loro membri si ritrovano non solo per celebrare lo Shabbat, ma anche per giocare a scacchi e parlare di politica. Non mancano fatti ed espressioni di antisemitismo. Spesso sono persone che non hanno mai incontrato un ebreo eppure portano con sé pregiudizi antisemiti tramandati di generazione in generazione. Ma in generale vale quanto si è visto lo scorso anno in occasione dei 1.700 di vita ebraica in Germania: i concittadini ebrei tedeschi si sentono a casa loro. Ciò che sembrava impossibile dopo il disastro della Shoà pare sia riuscito.

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